“Io ora sono qui a parlare con voi, ma non so se stasera tornerò vivo a casa. In ogni luogo, in ogni angolo di ogni strada, qui, non siamo al sicuro”.
Così si è chiusa ieri mattina una riunione da remoto con Bassam, un operatore umanitario, un medico, in collegamento da una stanza a Gaza City. Mentre io ero seduta comodamente in un ufficio a Milano, lui era lì, nel cuore di un’emergenza che non dà tregua.
Ha ripetuto più volte se avessimo domande ma era evidente che le parole mancavano, a me e alla mia collega.
Come fai a fare domande dopo aver ascoltato il racconto di atrocità quotidiane, di una realtà disumana vissuta con tutta quella dignità, quella forza e quella speranza? Poi ci ha detto che stanno finendo le medicine, gli strumenti sanitari, la benzina per le cliniche mobili, il cibo… ma lui, gli altri medici e operatori non si fermano.
Non vogliamo e non possiamo, siamo operatori umanitari e continueremo ad aiutare. Il resto del mondo, però, deve fare qualcosa, non possiamo più aspettare.
Con la voce rotta dal magone, ho fatto le domande che mi ero preparata (non tutte, molte risposte me le aveva già date con il suo racconto) a fatica perché, te lo confesso, mi veniva da piangere. Ma come avrei potuto, io, piangere davanti al coraggio di quell’uomo?
Ora, mentre mi preparo ad una nuova giornata, continuo a pensare alle sue parole. Spero che sia tornato a casa, che possa tornarci indenne dopo ogni intervento per salvare vite e sì, qualche lacrima scende.
Persone come Bassam lavorano senza sosta, senza risparmiarsi e rischiando la loro vita per salvare quella dei più fragili di Gaza…