Quel divorzio dei beni culturali
dal Corriere Fiorentino del 6/11/2010
Come contributo al dibattito su Eurochocolate proponiamo ai lettori della tramontana l'articolo di Tomaso Montanari apparso sull'edizione fiorentina del Corriere della Sera di sabato 6 novembre.
L’opinione
di Valentino Baldacci che ieri ha pubblicato sul Corriere Fiorentino un
intervento dal titolo «Il catalogo estero dei beni culturali» sulla
«valorizzazione» dei beni culturali, è quella prevalente in Italia da
quasi quarant'anni. La nascita del Ministero dei beni culturali
(ottenuta da Giovanni Spadolini nel 1974) scorporò le «belle arti» dalla
Pubblica istruzione, gettando le basi per il divorzio tra educazione e
opere d'arte e consegnando queste ultime all'ambito del divertimento.
Alla metà degli anni Ottanta Gianni De Michelis mise a punto la dottrina
per la quale «solo nella misura in cui il bene culturale viene
concepito come convenienza economica, diventa possibile concepire una
operazione le cui risorse possono essere destinate alla sua
conservazione». Da questi presupposti parte la deriva della
banalizzazione e dello sfruttamento dell'arte del passato, che culmina
nella pericolosissima separazione tra la tutela e la «valorizzazione»
introdotta nel 2001, e solo in parte sanata dall'ultima versione del
Codice Urbani, che ricorda che il fine della «valorizzazione» è sempre e
comunque do sviluppo della cultura» (e non lo sviluppo dell'economia).
La questione, dunque, è ben lungi dall'essere nominalistica, e c'è
almeno un buon motivo per preferire l'antica locuzione «patrimonio
storico e artistico» a quella recente di «beni culturali»: ed è il fatto
che l'articolo 9 della Costituzione «tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione». Del resto, già nel 1989
Giovanni Urbani (vale a dire il più lucido teorico della tutela che
l'Italia abbia avuto) scriveva: «Se dovessi indicare la ragione
principale dei nostri mali me la prenderei con la coercizione ideologica
e linguistica per cui una trentina di anni fa ci trovammo tutti a non
parlare più di opere d'arte e di testimonianze storiche, ma di beni
culturali». E quale sia la radice del fenomeno lo svela la selva di
anglismi che inghirlanda l'articolo di Baldacci: le parole chiave sono
«enjoiment», «store», «marketing». Nell'eterno provincialismo italico si
è pensato di trapiantare da noi il modello americano. Ma, come ha
scritto Salvatore Settis, a New York i Caravaggio stanno nei musei, a
Roma stanno nelle chiese: non si può, cioè, applicare al patrimonio
italiano (diffuso, e anzi fuso con l'ambiente in un'unica originalissima
creazione storica) un modello pensato per una società che ha con il
passato un rapporto completamente diverso. E invece così è stato: oggi
nelle università italiane la storia dell'arte tramonta a vantaggio della
«comunicazione» o meglio della «vendita» (nel senso di marketing,
appunto) dei «beni culturali». E l'opinione diffusa è che la storia
dell'arte non serva ad educarci, ma a divertirci («enjoiment», appunto):
e questo produce la quotidiana trivializzazione del patrimonio, che non
nasce da alcuna idea se non dalle esigenze del dio-marketing. Io credo
che tutto questo debba essere, per l'appunto, rottamato. Penso che sia
l'ora di abbandonare la chimera dei beni culturali e di tornare alla
storia dell'arte come parte costitutiva della nostra identità civile e
morale. Su una cosa Baldacci ha ragione: il patrimonio artistico deve
servire al Paese. La risposta all'industria dell'intrattenimento
«culturale» non dev'essere una fuga degli storici dell'arte nel chiostro
degli studi. Alla fame di storia dell'arte si deve rispondere con più
storia dell'arte: sui giornali, in televisione, alla radio e perfino nei
teatri e nelle piazze. Ma dev'essere una storia dell'arte raccontata da
chi la conosce: anzi, da chi la fa, la cambia e la rinnova ogni giorno.
Non deve produrre intrattenimento, ma conoscenza, crescita umana,
civiltà. E dev'essere una storia dell'arte che riporta gli italiani
nelle loro città, nelle loro campagne e nelle loro chiese, e non nelle
«sedi espositive». Tra pochi giorni Florens esalterà l'opinione di
Baldacci, che è quella comune. Piazza San Giovanni verrà trasformata in
un prato fiorito per celebrare il miracolo di San Zanobi. Ecco, questo
vuol dire pensare (e dunque agire e spendere) secondo il modello «beni
culturali». Con una parte infinitesima di quei soldi si sarebbero potuti
educare i fiorentini e i turisti a conoscere (per non fare che un
esempio) il prato fiorito creato da Luca della Robbia per ospitare il
sonno eterno di Benozzo Federighi. E’ un giardino magico, che sembra
d'oro e di vetro, ed è sempre in fiore, da gennaio a dicembre di ogni
anno. Luca lo fece in San Pancrazio, ma da molto tempo è stato
trapiantato in Santa Trinita. Ecco, questo vuol dire pensare secondo il
modello «storia dell'arte».
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Tomaso Montanari
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