I ''Versi livornesi'' di Giorgio Caproni
E' il più bel libro di poesia della seconda metà del Novecento
Il vero cuore della poesia di Giorgio Caproni, sia in senso cronologico che nel senso della straordinaria qualità poetica e dell’intensissimo (più intenso che in ogni altro poeta coevo) mondo affettivo, è il libro Il seme del piangere uscito nel 1959 da Garzanti, che ora ritroviamo anche in Poesie 1932-1986, sempre di Garzanti, e nel Meridiano di Mondadori, L’opera in versi, che riunisce tutte le publicazioni di poesia del nostro autore e che davvero va consigliato a tutti, anche per l’introduzione preziosissima del critico Pier Vincenzo Mengaldo. Il seme del piangere, dedicato alla madre Anna Picchi, l’indimenticabile Annina protagonista del libro, in particolare della sua prima parte, gli amatissimi “Versi livornesi”, è uno dei punti più alti in assoluto che la poesia italiana del Novecento abbia toccato, o diciamo almeno che è il più bel libro di poesia della seconda metà del Novecento, così teniamo fuori dal confronto gli Ossi di seppia di Montale, l’Allegria di Ungaretti e Trieste e una donna di Saba. E gran parte del nostro Penna, naturalmente. Vorrei soffermarmi su questo libro, di cui leggeremo qualche poesia, partendo dal suo titolo mirabile. E prendo spunto da un’osservazione decisiva di Mengaldo, che riguarda tutto Caproni, sulla circolarità come motivo centrale della sua poesia: motivo e movimento correlato al tema del viaggio come ritorno circolare al punto di partenza, che finisce – specie nell’ultima stagione della ricerca poetica di Caproni – per coincidere con il nulla, il non essere, l’”ontologia negativa” di cui ha parlato Calvino come centro della visione caproniana (basterà ricordare i celebri versi del “Biglietto prima di non andar via”, nel Franco cacciatore: “Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. // Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai”). E’ una circolarità che sempre più si avvita su se stessa, senza dare scampo (e, se mai, solo uno scampo nell’ironia, nell’umorismo), proponendoci un’inquietante allegoria “vuota”, direbbe Benjamin, come in Kafka, dove “l’inseguito insegue / il suo inseguitore” e dove, emblematica, troviamo “la preda che si morde / la coda… / La preda / che in vortice si fa preda / di sé…”. Io vorrei provare a usare questo argomento della circolarità in relazione al titolo (Il seme del piangere), che Caproni riprende dai versi del Purgatorio in cui Beatrice esorta Dante ad essere forte e, ormai purificato, a “porre giù” – cioè abbandonare – il seme del piangere, ora che conosce la verità che lo salva da ogni smarrimento, causa del suo pianto. Qui, in Caproni, sentiamo che il seme del piangere non può essere “posto giù”, il cerchio non si chiude: la specificazione (del piangere) ha una valenza oggettiva (come in Dante: il seme che genera il pianto) e una soggettiva (il seme lasciato, seminato dal pianto, che a sua volta genera il pianto e così via, in un movimento circolare inconcluso dove non sai più chi è l’inseguito e chi l’inseguitore). Da cosa viene questa aggiunta drammatica all’espressione dantesca? Dal fatto che, come dicevo, qui l’allegoria non ha più una chiave – diciamo così – positiva, che apra ad un significato univoco e certo, inscrivibile in un ordine di verità generale e condiviso; qui la parabola sembra condurre al nulla e alla vanificazione di ogni senso, a quella che Caproni chiamerà in un altro luogo “la Dedizione” (scritto maiuscolo), cioè la resa – definitiva – al nemico. Ma non è così. La madre ragazza che attraversa il Seme del piangere con la sua scia di cipria, con la camicetta dischiusa, a volo in bicicletta, in una Livorno ariosa e popolare, piena di vento e di odori, e in un tempo favoloso, o mitico (il tempo che precede la nascita del poeta e, diremmo, la storia, la cosiddetta storia con la s maiuscola; ma non del tutto: c’è la guerra, anzi il “seme della guerra”, a minacciare da presso questo sogno di incontaminata grazia originaria) – Annina, questa ragazza dai pensieri “alberati e freschi”, la cui esistenza è tutta nella giovinezza, ci consegna una memoria poetica che non avrà mai fine: intatta, incorruttibile, viva; riscatto e risarcimento contro la paura e la morte, che assediano, fin da subito, questa “storia gentile”, questa fantasticheria ambigua e totalmente innocente, “la più splendida (scrive Mengaldo) fra le sue (di Caproni) invenzioni di narratore, la biografia fantasticata della madre giovinetta con conseguente slittamento erotico del rapporto madre-figlio (‘suo figlio, il suo fidanzato’)”. E tutto ritrova il suo senso, e ci salva dal nulla; ma questo avviene per merito dell’incanto irripetibile di una scrittura “fine e popolare” che non ha eguali (fine e popolare come fu lei, Annina, in un’identità mai più raggiunta con tale forza ed evidenza tra vita e poesia):
BATTENDO A MACCHINA
Mia mano, fatti piuma: fatti vela; e leggera muovendoti sulla tastiera, sii cauta. E bada, prima di fermare la rima, che stai scrivendo d’una che fu viva e fu vera.
Tu sai che la mia preghiera è schietta, e che l’errore è pronto a stornare il cuore. Sii arguta e attenta: pia. Sii magra e sii poesia se vuoi essere vita. E se non vuoi tradita la sua semplice gloria, sii fine e popolare come fu lei – sii ardita e trepida, tutta storia gentile, senza ambizione.
Allora sul Voltone, ventilata in un maggio di barche, se paziente chissà che, con la gente, non prenda aire e coraggio anche tu, al suo passaggio.
E per rendere concreta la poetica fine e popolare occorrevano le rime ariose e cosiddette facili, che rendono unico questo libro di poesia, fino (proprio alla fine) alla rima in cuore e amore, da sempre la più facile e insieme la più difficile:
PER LEI
Per lei voglio rime chiare, usuali: in -are. Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. Rime coi suoni fini (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, coralline, le tinte della sue collanine. Rime che a distanza (Annina era così schietta) conservino l’eleganza povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano labili, anche se orecchiabili. Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari.
Se questa è l’intenzione di poetica sottesa al ritratto della madre, comprendiamo facilmente quanta distanza corra tra questa madre (viva, sensuale nei suoi castissimi gesti, attraversata da un vento di desideri e di vita) e altre madri della tradizione poetica novecentesca, che ci sembrano a confronto terribilmente lontane e fredde nella loro idealizzazione-astrazione statuaria, quasi un po’ da statue funerarie (si pensi alla madre ungarettiana di Sentimento del tempo). Leggiamo invece questa bellissima
L’USCITA MATTUTINA
Come scendeva fina e giovane le scale Annina! Mordendosi la catenina d’oro, usciva via lasciando nel buio una scia di cipria, che non finiva.
L’ora era di mattina presto, ancora albina. Ma come s’illuminava la strada dove lei passava!
Tutto Cors’Amedeo, sentendola, si destava. Ne conosceva il neo sul labbro, e sottile la nuca e l’andatura ilare – la cintura stretta, che acre e gentile (Annina si voltava) all’opera stimolava.
Andava, in alba e in trina pari a un’operaia regina. Andava col volto franco (ma cauto, e vergine, il fianco) e tutta di lei risuonava al suo tacchettio la contrada.
E ancora:
QUANDO PASSAVA
Livorno, quando lei passava, d’aria e di barche odorava. Che voglia di lavorare nasceva, al suo ancheggiare!
Sull’uscio dello Sbolci, un giovane dagli occhi rossi restava col bicchiere in mano, smesso di bere.
Torna alla mente Guido Cavalcanti: “Chi è questa che vien, ch’ogni om la mira / e fa tremar di chiaritate l’aere”. E a Cavalcanti e a Dante e alla lode stilnovistica (senza però, di quella, la stilizzazione spiritualizzante) rimanda anche questa splendida
LA GENTE SE L’ADDITAVA
Non c’era in tutta Livorno un’altra di lei più brava in bianco, o in orlo a giorno. La gente se l’additava vedendola, e se si voltava anche lei a salutare, il petto le si gonfiava timido, e le si riabbassava, quieto nel suo tumultuare come il sospiro del mare.
Era una personcina schietta e un poco fiera (un poco magra), ma dolce e viva nei suoi slanci; e priva com’era di vanagloria ma non di puntiglio, andava per la maggiore a Livorno come vorrei che intorno andassi tu, canzonetta: che sembri scritta per gioco e lo sei piangendo: e con fuoco.
Certo è difficile intravedere, dietro (o dentro) l’incantamento di questa canzonetta, come Caproni classicamente la chiama, la persistenza di un nucleo complesso e problematico, di un groviglio psicologico che dà la vertigine: qui il poeta è, oniricamente, il fidanzato-amante della madre giovinetta; in una raccolta successiva si immaginerà figlio del proprio figlio e scriverà i versi stupendi per il figlio Attilio Mauro (che ha il nome del padre del poeta, in una circolarità che lascia senza fiato): “Portami con te lontano / …lontano… / nel tuo futuro. // Diventa mio padre, portami / per la mano…”. Ma questo doppio viaggio sentimentale (nel passato vissuto dalla madre, nel futuro che vivrà il figlio) è un doppio scacco, un doppio – speculare – autoinganno, il cui esito è l’attuale non essere : “Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai”, come ricordavamo. E di questo groviglio psicologico, straniante per noi che leggiamo (ma solo dopo), sono sicuri indizi certe parole come colpa, peccato, errore, rimorso che lasciano un’ombra di ambiguità su questi versi lievissimi, così – apparentemente – fragili. In particolare la parola rimorso, per qualcosa che il poeta ritiene inconfessabile, si affaccia quasi alla fine di una delle ultime poesie di questo gruppo, forse – giustamente – la più famosa, dal fantastico attacco realistico-surrealistico:
ULTIMA PREGHIERA
Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta, ma corri. E con la gente (ti prego, sii prudente) non ti fermare a parlare smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno, vedrai, prima di giorno. Non ci sarà nessuno ancora, ma uno per uno guarda chi esce da ogni portone, e aspetta (mentre odora di pesce e di notte il selciato) la figurina netta, nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare oltre quel primo albeggiare. Pedala, vola. E bada (un nulla potrebbe bastare) di non lasciarti sviare da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna, col vento una torma popola di ragazze aperte come le sue piazze. Ragazze grandi e vive ma, attenta!, così sensitive di reni (ragazze che hanno, si dice, una dolcezza tale nel petto, e tale energia nella stretta) che, se dovessi arrivare col bianco vento che fanno, so bene che andrebbe a finire che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare, no, il loro apparire. Faresti così fallire con dolore il mio piano, e io un’altra volta Annina, di tutte la più mattutina, vedrei anche a te sfuggita, ahimé, come già alla vita.
Ricòrdati perché ti mando; altro non ti raccomando. Ricordati che ti dovrà apparire prima di giorno, e spia (giacché, non so più come, ho scordato il portone) da un capo all’altro la via, da Cors’Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto nero, e una gonna verde. Terrà stretto sul petto il borsellino, e d’erbe già sapendo e di mare rinfrescato il mattino, non ti potrai sbagliare vedendola attraversare.
Seguila prudentemente, allora, e con la mente all’erta. E, circospetta, buttata la sigaretta, accòstati a lei soltanto, anima, quando il mio pianto sentirai che di piombo è diventato in fondo al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio, non potrò darti mano, tu mòrmolale all’orecchio (più lieve del mio sospiro, messole un braccio in giro alla vita) in un soffio ciò ch’io e il mio rimorso, pur parlassimo piano, non le potremmo mai dire senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato: suo figlio, il suo fidanzato. D’altro non ti richiedo. Poi, va’ pure in congedo.
Ma il rimorso del figlio fidanzato (il rimorso, ha detto Caproni, che morde come un cane) non è, come si può pensare a una prima, superficiale lettura (ma per la verità anche dopo più letture), qualcosa di relativo a un non sciolto nodo edipico; si tratta di un’altra cosa, penso, che ci tocca tutti: del tradimento che la vita (il puro e semplice biologico atto del crescere - “…quel bambino… / è cresciuto, ha tradito” -, del diventare adulti anche dei figli, staccarsi dall’innocenza di un’età anche solo sognata, ed essere vivi quando il padre, la madre non ci sono più…), del tradimento, dicevo, che la vita ha teso a questa ragazza così viva e vera, alla sua giovinezza, ai suoi sogni. E’ lo stesso rimorso, sia pure con una tonalità diversa, che ritroviamo nei versi bellissimi dedicati al padre, nella sezione successiva del libro: “(…) Mio padre piangeva sgomento / d’essere così vecchio. // Piangeva in treno, solo, / davanti a me, suo figliolo (…) // (…) // Io nulla gli avevo detto, / standogli di rimpetto. / Per Bari proseguì solo: / lo lasciai lì: io, suo figliolo”. E poi Annina è morta, e il figlio non ha potuto impedirlo (gli è “sfuggita… come già alla vita”):
EPILOGO
Annina è nella tomba. Annina, ormai, è un’ombra E chi potrà più appoggiare l’orecchio al suo petto, e ascoltare come una volta il cuore, timido, tumultuare?
E ora il ricordo può andare più distesamente a quel mattino, a un tempo che – a fronte del presente non essere – non è perduto, se resta così netto nella memoria e diventa poesia, per sempre:
IL CARRO DI VETRO
Il sole della mattina, in me, che acuta spina. Al carro tutto di vetro perché anch’io andavo dietro?
Portavano via Annina (nel sole) quella mattina. Erano quattro i cavalli (neri) senza sonagli.
Annina con me a Palermo di notte era morta, e d’inverno. Fuori c’era il temporale. Poi cominciò ad albeggiare.
Dalla caserma vicina allora, anche quella mattina, perché si mise a suonare la sveglia militare?
Era la prima mattina del suo non potersi destare.
E questa è probabilmente la più pura e commovente dedica all’esistenza della poesia di Caproni, e ci conferma l’impressione che proprio lui sia, dei nostri poeti, il poeta più nostro.
Nome: pietro lauro Commento: Caro Walter,grazie per aver richiamato la nostra la nostra attenzione su Caproni e per aver dischiuso, almeno a me, la poetica che percorre la poesia di Caproni. La classifica ! non ha alcun valore oggettivo, con essa ci hai reso partecipi di una tua convinzione intima. Anche i critici hanno un cuore, grazie e buon proseguimento, meriti tutta la nostra attenzione.
Nome: Paolo Ottaviani Commento: Caro Walter, ho letto sulla “Tramontana” le tue profonde, commoventi riflessioni sui “Versi livornesi” di Giorgio Caproni. Una prosa poetica, la tua, che aiuta a penetrare fin dentro i nuclei sorgivi la poesia caproniana e a restituircela, se possibile, ancor più fulgente e misteriosa nella sua infinita “circolarità”. A maggior ragione, proprio perché sei riuscito a toccare le corde più intime della creatività del pensiero poetico, stona, a mio parere, - e non poco! – quel tentativo (direi quell’ossessione!) di classificare per ordine di altezza -“più alti”- o di bellezza – “il più bel”. Nella tua classifica manca la “grandezza” ma, almeno così sembra, è come se ci fosse: “è uno dei punti più alti in assoluto che la poesia italiana del Novecento abbia toccato, o diciamo almeno che è il più bel libro di poesia della seconda metà del Novecento, così teniamo fuori dal confronto gli “Ossi di seppia” di Montale, “l’Allegria” di Ungaretti e “Trieste e una donna” di Saba. E gran parte del nostro Penna, naturalmente.” Tirare in ballo Penna in questo contesto ha il sapore di non voler far torto a un amico o a un vicino di casa! L’intero brano riportato potrebbe perfino leggersi come un piccolo sgarbo involontario a tutti i poeti citati, Caproni compreso! Credo che, caro Walter, quando si ha il dono di un’altissima sensibilità di critico e di poeta come la tua, per onorare fino in fondo quel dono, occorrerebbe tenersi lontani dallo stilare sia pur velate classifiche ed entrare nell’anima di ciascuna poesia senza l’assillo dei confronti. Ne sarebbero più lieti i poeti e più libera la critica!
Il mio abbraccio affettuoso. Paolo