La caffettiera
Non potete immaginare quante funzioni possa avere lì dentro un oggetto tanto comune: con una forma che si adegua perfettamente alle necessità quotidiane, può sostituire un ferro da stiro, un martello, un batticarne... può anche essere sbattuta sulle sbarre per protesta.
Matteo
Guidi, artista visivo con una formazione in comunicazione visiva ed
etno-antropologia, conduce ricerca in contesti complessi con
particolare interesse ai fenomeni di forte esclusione sociale e ai
contesti caratterizzati da alti livelli di controllo sulla persona.
Ha pubblicato Cucinare in massima sicurezza, Stampa
Alternativa / Nuovi Equilibri, Viterbo, 2013.
Nel
tuo lavoro di ricerca privilegi l’attenzione alle persone che
vivono in situazioni di forte controllo....
L’idea
di osservare chi vive in condizione di forte controllo è solo un
pretesto per vedere ciò che accade in termini più generali nella
nostra vita quotidiana. Le carceri sono un esempio di forte controllo
della persona e sulla persona, così come per me è stata
l’esperienza in Palestina, dove le persone sono fortemente limitate
nelle loro pratiche quotidiane. Ma anche le dinamiche familiari
possono controllare fortemente le persone. In situazioni come il
carcere o un regime militare queste situazioni sono esasperate, ma in
realtà ci sono tante misure intermedie dove, senza che ce ne
rendiamo conto, questo avviene. Che dire degli aeroporti? Sono un
altro luogo in cui le persone sono fortemente controllate; un luogo
molto più vicino a noi, e nel quale accettiamo questo controllo
perché ne va della nostra sicurezza.
Ecco, a
me interessa andare a vedere i limiti e soprattutto le tecniche, le
tattiche che noi adottiamo per superare le limitazioni quotidiane.
Per questo mi interessano le carceri o i territori controllati come
la Palestina, perché ci permettono di capire qualcosa di quello che
avviene nella nostra vita quotidiana, in territori dove
apparentemente ci sentiamo sicuri.
L'obiettivo
per me, insomma, è studiare i meccanismi del controllo dichiarato,
istituzionalizzato, ma anche vedere come l’uomo è in grado di
trovare degli espedienti, che io chiamo tattiche, soluzioni o
scorciatoie per riadattare e rinegoziare la propria posizione
altrimenti passiva.
Proviamo
a mettere a fuoco i due casi estremi con i quali ti sei confrontato.
Iniziamo dal carcere. Com'è stato l’incontro con i detenuti?
Tutto è
cominciato perché la cooperativa Co.Mo.Do, che stava gestendo
laboratori dentro la Casa di Reclusione di Spoleto dove lavorava da
tempo e anche bene, mi ha proposto di andare a tenere un modulo nei
laboratori di comunicazione visiva che loro già stavano portando
avanti da qualche anno. Era il 2008. Ho accettato subito, avevo una
tremenda voglia di entrare in carcere, di penetrare quei luoghi.
Sinceramente non amo particolarmente tenere workshop o laboratori, un
po’ mi annoia e trovo il rapporto con gli studenti un po’
difficoltoso, nel breve tempo di un workshop, ma mi interessava e
incuriosiva molto capire questi rapporti in una situazione tanto
lontana dalla mia vita ordinaria. Ero anche convinto che avrei
potuto fare un buon lavoro con quelle persone. Percepivo un
potenziale che poi si è confermato. Dovevo fare due settimane di
laboratorio; devo dire che avevo una grande paura di non essere
all’altezza della siotuazione, mi ero preparato, avevo studiato
tanto...
Erano
tutti detenuti dell’alta sicurezza, pene lunghe, molti ergastoli.
Ricordo ancora come nel primo incontro Carmelo Musumeci, uno del
gruppo, oggi detenuto a Padova, smontò il mio tentativo di lezione
di semiotica dicendomi: “Ma noi queste cose le sappiamo già! Non
c’è bisogno che tu ce le venga a raccontare”. Ecco, lì decisi
-e si rivelò la mossa migliore- di cambiare registro, di farmi
raccontare da loro il significato di qualche oggetto importante
presente nella loro cella.
Il primo
passo fu la scomposizione della caffettiera. Proprio così, una
caffettiera. Non potete immaginare quante funzioni possa avere lì
dentro un oggetto tanto comune: con una forma che si adegua
perfettamente alle necessità quotidiane, può sostituire un ferro da
stiro, un martello, un batticarne... può anche essere sbattuta sulle
sbarre per protesta. Abbiamo provato a disegnare insieme in sezione
la moka, anche scomponendone i vari componenti, divertendoci molto,
devo dire.
Di lì a
poco, con Ivano Rapisarda, è nata l’idea di creare un collettivo.
È stata sua l’idea del Mo.Ca Collective, ed è stato lui a
spiegarmi che Mo.Ca era con la C non con la K, perché
acronimo di Mondo Carcerario; un collettivo per riunire tutti quelli
che nelle carceri volevano fare lavori di questo tipo, di
comunicazione visiva. Ci sembrava che la “Moca”, che a tante cose
può essere utile, esprimesse bene la pluralità di esperienze di cui
è composto il mondo carcerario. Il Mo.Ca Collective, nella
parola “collettivo”, poi, sottolineava il fatto che in carcere
c’è l'impossibilità totale di riunirsi. Così la prima cosa che
feci con loro fu di spostare tutti i banchi modello scuola
elementare, metterli in cerchio, o a ferro di cavallo in modo da
creare, o almeno fingere di, un gruppo. Che poi ogni volta si
sfaldava, quando ognuno tornava nelle sezioni e io me ne tornavo a
casa...
Con il
lavoro assieme ai detenuti è nato anche una sorta di ricettario che
però è molto di più e molto altro.
È un
testo pensato e scritto con le persone detenute delle sezioni di alta
sicurezza, e non solo del carcere di Spoleto, ma corrispondendo anche
con detenuti di tutta Italia. È un libro che racconta come si cucina
nelle celle con quel poco che si può avere a disposizione. Quindi,
col pretesto di fornire delle ricette, il libro pone l’accento
sugli utensili da cucina che vengono usati, cosa che in genere nei
normali ricettari viene omessa e invece qui diventano il filo
conduttore del lavoro; chi immaginerebbe che un manico di scopa possa
diventare un mattarello o dei lacci delle scarpe possano essere usati
per legare la pancetta? O che una persona per fare il pane debba
seguire tutto un processo che prevede la lievitazione sul televisore?
È una cosa che colpisce allo stomaco, magari ti strappa anche una
risata, ma poi ti fa fermare a riflettere sulla condizione di queste
persone. Forse anche in questo senso possiamo collocare questo lavoro
nel mondo dell’arte. Il libro è illustrato, i disegni sono di
Mario Trudu, che in carcere si è diplomato all’Istituto d’Arte.
Cosa
c'entrano le ricette con l’ergastolo?
C’entrano
soprattutto perché si parla di prepararsi, di realizzare il proprio
cibo, di gestione della propria alimentazione, si parla di nutrirsi,
e quindi, allora, di riprodursi... Al contempo parliamo di persone
sottoposte a una condanna perpetua, la cui condizione non ha una
fine, o meglio, la sua fine coincide con la fine dell’individuo.
Dunque
anche un ragionamento sul senso della pena, su un mantenersi in vita
fine a se stesso...
Che senso
ha riconoscere che ho sbagliato se poi non ho speranza di restituire
qualcosa alla società e restituirmi alla società? Lo stesso accade
con il cibo. Perché mi devo alimentare se la mia condanna è stare
chiuso qua dentro per sempre? Perché mai dovrei alimentare la mia
condanna? Invece è proprio questa la forza delle persone con cui ho
fatto il libro. C’è una complessità interessantissima e
bellissima nelle ricette, un'elaborazione straordinaria. E vien
proprio da chiedersi: tutto questo in una condizione così estrema?
Da dove viene questa voglia di farsi la granita o tutta
l’elaborazione necessaria per farsi i cannoli siciliani, tutto
questo impegno, e ingegno, in uno status che rischia di non cambiare
mai, in una vita ristretta in un luogo del quale qualcuno vuole
“buttare la chiave”. È stupefacente come anche lì rimanga
comunque il desiderio di vivere e di vivere al meglio.
Nella
società in cui viviamo c'è quasi un’esasperazione di questa
dimensione della good life. Ecco, anche qui, in condizioni
dove niente sembra avere più senso, l’uomo cerca il meglio per sé.
Quand’ero
più piccolo, ero sempre affascinato dalle storie in cui si
raccontava di situazioni estreme in cui il protagonista si ritrovava
con questa grandissima forza, quando mi spiegavano che “nel momento
in cui stai per cadere in un precipizio, la tua capacità di
sollevarti è enorme”. Qui avviene lo stesso. In condizioni così
estreme l’uomo dimostra che ha un grande potenziale. Vien da
pensare che bisognerebbe che ci fossero più occasioni per tirarlo
fuori, quel potenziale. Invece siamo come addormentati, distratti...
Ti sei
occupato anche di fotografia in carcere.
Alla
fotografia ci sono arrivato tardi, dopo che avevo già avuto
esperienze con il carcere, e quando ci entri, lo sai meglio di me, ci
rimani incastrato, continui a portarti a casa molto di quello che hai
incontrato lì dentro, e continui a riflettere molto, ti fai tante
domande. Così a un certo punto mi sono chiesto: ma è mai possibile
che le uniche immagini che ritraggono tutte queste persone che sono
dentro il carcere siano foto segnaletiche o quelle scattate quando
si esce per i processi nei casi più mediatizzati? Eppure, mi sono
detto, io ho visto lì dentro delle persone con le scarpette da
ginnastica, la magliettina, la polo verde pisello, abiti di
un'estrema ordinarietà. Ho iniziato a riflettere e un giorno
leggendo L’assassino dei sogni di Carmelo Musumeci, vedo
questa sua foto in bianco e nero: lui accasciato sull’erba, con
accanto un cane accovacciato sulle zampe posteriori, Carmelo
indossava un cappellino con l’immagine icona di Che Guevara, un
paio di sandali... una foto che avresti potuto fare nel parchetto
dietro casa tua. C’era il cane, l’erba incolta e non c’erano
riferimenti al carcere. Un contrasto enorme fra la persona che avevo
visto al chiuso qualche giorno prima, e questo soggetto che avrebbe
potuto essere in qualsiasi periferia di qualsiasi nostra città. Tra
l'altro io sapevo che Carmelo non usciva da 21 anni, e quindi quella
foto non poteva essere stata scattata in un campetto di calcio. Nel
libro c’era anche una lettera alla compagna in cui diceva: “Mi
sono appena arrivate le foto che abbiamo fatto nel campetto del
carcere”. Allora gli ho scritto una lettera e gli ho chiesto di
spiegami un po’ questa storia delle foto che si erano fatti, e lui
mi ha confermato che in carcere c’era un giro di produzione di
fotografie dei detenuti, nel senso che in alcuni momenti le mura del
carcere si incrinano... Sì, capita che in un’istituzione così
rigida si apra qualche crepa, che viene magari da un momento di
umanità di qualche direttore in certi periodi dell’anno, spesso
coincidenti con festività religiose. Non avviene in tutte le
carceri, ma in alcune di queste istituzioni chiuse c’è questa
apertura e così accade che in alcune possano farsi queste
fotografie.
Ho
letto che però alcuni di loro reagiscono con perplessità
guardandosi nelle immagini. Alcuni persino non si riconoscono...
Sì. C’è
tutta una serie di problematiche, legate al tempo che passa, al fatto
che in un carcere di massima sicurezza non ci sono specchi per
potersi vedere normalmente, insomma c'è come un distaccamento. A me
interessava proprio la fotografia, l’istantanea, nella condizione
dell’ergastolo, che non è istantaneo, ma esattamente il suo
contrario.
All’inizio
hai accennato all’esperienza in Palestina, un altro caso estremo di
controllo sulla persona.
In
Palestina sono andato nel settembre del 2012. Anche lì avrei dovuto
restare solo tre mesi, poi però ho capito che mi serviva più tempo
e per fortuna mi è stato proposto di fermarmi. In tutto ci sono
stato sette mesi, e ci dovrò tornare il prossimo settembre perché
ho ancora dei pezzi di ricerca da completare. Era un po’ che avevo
desiderio di vedere cosa succedeva da quelle parti. Come per il
carcere, prima di mettervi piede era un luogo di cui non sapevo
nulla. O meglio, le informazioni che ricevevo erano solo quelle che
vengono dall’informazione massiva, nel senso che non avevo
un’informazione indipendente. Avendo per anni ragionato su persone
ristrette in regimi di alta sorveglianza, mi interessava continuare
il discorso, mi incuriosiva vedere cosa succede quando gli spazi si
dilatano, ma le dinamiche si ripetono, in contesti comunque
controllati, complessi.
Le
carceri sono distanti da noi, dalla società nella quale viviamo ogni
giorno, perché sono proprio chiuse. Allora mi interessava
sperimentare luoghi più grandi, come la Palestina, che però
incarnano dinamiche simili, perché le persone vivono all’interno
di un territorio circoscritto, per uscire dal quale comunque ci sono
grossi ostacoli, bisogna fare peripezie, ottenere permessi che non
tutti possono ottenere...
Le mie
ricerche si sono così incontrate con quelle di Giuliana Racco,
artista canadese che da anni lavorava sulle migrazioni, sul movimento
delle persone attraverso territori in situazioni di eccezionalità e
con la quale condivido ora una parte della mia ricerca, e della mia
vita quotidiana.
Quello
che le informazioni non riportano, in effetti, sono tutte le piccole
limitazioni al tuo vivere giornaliero, il fatto che anche solo per
andare da A a B devi fare un percorso tortuoso, che a un certo punto
lungo il tuo cammino viene costruito un checkpoint, dove qualcuno ti
ferma e ti chiede chi sei, dove vai, cosa fai, e tu devi negoziare.
Questo succede un po' anche nelle carceri: devi negoziare
continuamente la tua posizione, il tuo territorio, attraverso la
fiducia che dai agli altri, esattamente come accade in un territorio
allargato ma comunque chiuso dentro confini e gestito da un’autorità
che senti che non ti rappresenta. Così come per il carcere, anche in
Palestina c'è questa sensazione che “si è finiti dentro”, non
si è andati dentro… E poi c’è il muro.
Ma
andando lì, capisci che sono le stesse dinamiche della vita
quotidiana di un carcere. Si potrebbe parlarne all’infinito. Ma,
per dirne una, in quei territori non c’è quasi più consumo di
pesce e quello che c’è arriva da un altro Stato, proprio lo Stato
che si ha difficoltà a riconoscere. Chi vive nella West Bank non ha
più accesso al mare, quindi non ha accesso a quella risorsa, mentre
i palestinesi si sono sempre riconosciuti come abitanti del
Mediterraneo.
Tornando
un po' al discorso iniziale, quello che è interessante è che le
dinamiche che incontriamo in questi contesti non sono così diverse
da ciò che ci accade nella nostra vita quotidiana. Ho già citato
gli aeroporti, ma chi vive nelle città si accorge che le tante leggi
che regolano lo star bene insieme o che garantiscono la sicurezza
portano con sé una serie di impedimenti, restrizioni e limitazioni
al nostro vivere quotidiano che poco alla volta assimiliamo. Ora,
l’assimilazione di un limite è il primo passo di quello che poi
può diventare un sistema di autorestrizioni o autocostrizioni, nel
senso che siamo noi per primi a pensare che una certa azione è
meglio non farla ancor prima che ce la proibiscano.
Le
nostre prigioni quotidiane... ma cosa rimane, alla fine dei tuoi
studi, molti rapporti immagino.
Sì,
certo. Inizio dai palestinesi, l’ultimo contatto l’ho avuto
proprio ieri sera con Ibrahim Jawabreh, una delle persone con cui ho
lavorato in Palestina e con cui sono rimasto più in contatto, con
lui e con la sua famiglia, anche perché ho vissuto nel campo
rifugiati dove lui è nato e cresciuto, e alloggiavo dalla sua
famiglia. Proprio con Ibrahim, che è un artista performer, sto
cercando di portare avanti un nuovo pezzo di lavoro, tra la Palestina
e l’Europa.
Ciò che
stiamo per fare è una vera sfida... Ci sto lavorando anche con
Giuliana e parte da un primo step che abbiamo intitolato “The
artists and the stone”, nell’ambito di un progetto più ampio che
si chiama Elemental Movements...
Vogliamo
fare arrivare qui a Barcellona Ibrahim, affinché possa portare
avanti la sua pratica artistica di performer e di interagire con il
nostro lavoro. Per il momento siamo impegnati a preparare i documenti
necessari a fargli ottenere un visto Schengen dal consolato spagnolo
in Palestina. Allo stesso tempo però vogliamo spostare dallo stesso
campo di rifugiati dal quale Ibrahim proviene e dove c’è una cava
- come in buona parte di quel territorio del resto - un blocco di
pietre di circa dodici tonnellate. Anche di questo stiamo preparando
i documenti necessari per il suo spostamento. In questo momento siamo
nella fase preliminare di costruzione del network di partners,
ricercatori che vogliono collaborare e finanziatori dell’intero
progetto.
Le pietre
sono state una parte importante del lavoro che abbiamo fatto là
durante la nostra permanenza. In Palestina c’è un rapporto con la
pietra molto forte. Lì in particolare si ricava una pietra
classificata appunto come pietra di Gerusalemme, Jerusalem
Stone. Insomma vogliamo far arrivare qui in Spagna lui e questa
grossa pietra. L'idea ci è venuta quando Ibrahim ci ha chiesto se il
centro che ci ha dato l’opportunità di lavorare in Spagna, che si
chiama Hanagr, poteva scrivergli una lettera d’invito per
permettergli di aprire le porte d’uscita dal suo paese. Ci siamo
detti, certo, facciamolo, ma proviamo a farlo diventare un caso, un
atto dal quale poter generare riflessioni. Per questo si è pensato
di contrapporre il suo movimento a quello della pietra di
Gerusalemme. Vediamo cosa succede se contemporaneamente abbiamo
anche la possibilità di muovere dalla Palestina, da casa sua,
insieme a una persona, dieci-dodici tonnellate di pietra...
Pietre
e persone da liberare... e con le carceri?
Ci sono
persone con cui continuo a mantenere contatti. Che non significa
necessariamente che scrivo loro spesso, ma che sono persone cui
spesso penso, delle quali cerco di capire la condizione: come vivono
le giornate, cosa fanno. Provo proprio a immaginarmele le loro
giornate. Si è formato un forte legame, infatti mi succede quello
che succede con un amico: magari un certo modo di dire mi ricorda uno
di loro; penso a loro quando vedo qualcuno che me li ricorda o mi
imbatto in qualcosa che so che a uno di loro potrebbe piacere, che
so, una foto...
(a cura
di Francesca de Carolis)
intervista a Matteo Guidi a cura di Francesca de Caroli
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