08/12/2024
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A proposito di Sant’Antonio, l’abate…
S. Antonio abate, la festività, i canti tradizionali

“S. Antonio” (l’Abate, e non il “lusitano” da Padova), festeggiato il 17 di gennaio, che non credo si possa identificare con il “Sant’Antolin de legno” che anche in Umbria si cantava, ma solitamente in occasione della trebbiatura (o come filastrocca, forse, per bambinelli, nel corso dell’anno nella sua interezza), gode ancora di “rispetto” e “fama”, in altre parole di coinvolgimento emotivo e/o scherzoso, ed è a tutt’oggi, o tale può essere, motivazione di ricorrenza sentita e vissuta, e non necessariamente o strettamente religiosa, anche perché giorno di inizio della “complessa” “istituzione” del carnevale (Carnevale?).

Il ricco volume di Giancarlo Gaggiotti dell’Editoriale Umbra di tre anni addietro “La memoria del tempo” riporta almeno cinque feste popolari al riguardo: Il piatto di Sant’Antonio a S. Maria degli Angeli (nel fine settimana successivo al 17 gennaio), la Festa di Sant’Antonio abate a Campello sul Clitunno (nel giorno della prima domenica di Carnevale), la Festa di Sant’Antonio abate a Cannara (la domenica successiva al 17), Sant’Antonio abate a Giano (il 17 gennaio), e, ancora, una Festa di Sant’Antonio a Otricoli (la domenica successiva al giorno 17). Son tutte, o quasi tutte, feste di origine remote. Sfogliate il volume e potrete saperne di più.

Nel bel cofanetto (libro con 4 CD) di Valentino Paparelli, “L’Umbria cantata” (squi[libri] editore, 2008), a pagina 42 il paragrafo “canto per la fesa di sant’Antonio Abate” riporta una approfondita lunga nota relativa al culto di Sant’Antonio, ai fenomeni allo stesso correlati, ai canti relativi che molti conoscono, e, nella fattispecie, a “Ecco il nostro Sant’Antonio”, raccolto nella Valnerina ternana (ma quanti di voi non rammentano il famosissimo Sant’Antonio a lu deserte che cantava Giovanna Marini e altri ancora?); al testo del canto è  affiancata la spiegazione di questo canto di questua (l’offerta propiziatoria in generi solitamente alimentari era concomitante al periodo dell’uccisione del maiale, ed era finalizzata, leggo, all’ottenimento da parte del santo della protezione degli animali e alla propiziazione della loro fertilità e dell’abbondanza.). Nel libro di questo cofanetto di Paparelli si riporta anche che questo santo è detto anche “del porcello” proprio per distinguerlo dall’omonimo santo di Padova (in qualità, anche, di protettore degli animali, questo S. Antonio è solitamente presente, nell’iconografia tradizionale, con codesto animale, il porcello per l’appunto, ai suoi piedi).

In documenti cartacei ed in rete chiunque si può sbizzarrire a scoprire quali e quanti racconti e canti (il canto più noto descrive la vita la storia la leggenda creatasi attorno a questo antico personaggio eremita) vi possono essere, ancora, su questo santo, su questa giornata, su codesta ricorrenza (vedi ad esempio, il “rinato” carnevalino, “Carnvalino”, a Pretola). E tanto altro ancora (e non soltanto in Italia)…

Ma eccomi a ciò di cui volevo parteciparvi e che probabilmente in pochi potranno conoscere e reperire. Il racconto (ne “Il medico che scrive”, pubblicato da parte dei familiari di Gianvincenzo Omodei Zorini) è stato scritto svariati anni fa; non saprei dirvi quando e dove fu inizialmente pubblicato, se rivista, giornale o altro. Leggiamolo insieme.

Un santo della tradizione: Sant’Antonio dalla barba bianca

Il suo aspetto è ancora molto popolare nell’iconografia sacra; è un vecchio (campò infatti la bellezza di 105 anni) che si appoggia ad un bastone a forma di T (la “Croce egizia”) su cui è posto un piccolo campanello, ed ai suoi piedi scodinzola un roseo porcellino.
È Sant’Antonio Abate, “dalla barba bianca”, da non confondersi con l’altro Antonio, figura certamente storica e non leggendaria, noto come Antonio da Padova, anche se in realtà era “da Lisbona”.
Il Sant’Antonio che si celebra il 17 gennaio fu per secoli una delle principali figure sacre della tradizione popolare, poiché considerato protettore degli animali, di cui il maialino sarebbe il simbolo.
Forse la sua festa invernale ha preso il posto delle pagane “ruralia”, culto agricolo in onore di Cesare, di cui sopravviverebbero i cosiddetti “fuochi di Sant’Antonio” di significato magico ed apotropaico che in tale data vengono accesi qua e là per l’Italia come omaggio al Santo e come rituale di purificazione.
Sul Santo, sul suo culto in ambiente contadino (soprattutto in terra emiliana) si potrebbe scrivere molto, come molte sono le testimonianze dedicate alla sua figura raccogliendo le estreme tracce di una diffusa secolare tradizione fatta di proverbi e detti, di stampe popolari e di altre presenze artistiche.
L’agiografia racconta di Antonio come di un giovane egiziano che, alla vita mondana ed al successo della città, preferì il romitaggio nel deserto, ove sarebbe stato tentato in mille modi dal demonio, al quale sempre riuscì a sottrarsi con la sua ferrea volontà.
E la campanella che sta in cima al suo bastone sarebbe a indicare la vigilanza che sempre bisogna avere nelle tentazioni. Ma quanto a simbologia poco vi è di sicuro, dal momento che potrebbe anche indicare l’unica sua compagna nel deserto, mentre lo stesso porcellino starebbe a sua volta ad indicare la tentazione domata.
Comunque sia, ormai il Santo eremita è diventato il patrono del mondo animale, e per la sua festa, in molte località, è ancora in uso la benedizione delle stalle che a sua volta diviene una specie di festa per tutti col sacerdote e gli inservienti che si recano di cascina in cascina, magari consegnando immagini o calendari benedetti, e ricevendone in cambio qualche prodotto della terra (per lo più insaccati).
Il rituale della visita del parroco è stato ripreso da molti scrittori che furono testimoni della simpatica usanza, che coincideva con una giornata di sospensione da parte delle donne della pratica di filare nel rischio, si diceva, di filare insieme alla lana od alla canapa, anche la barba candida del Santo… Barba che, data la stagione, è anche bianca di neve.
Anche oggi, in parecchie località, si mantiene il rituale collettivo della benedizione, magari accompagnato dalla distribuzione di pane benedetto, assunto con vera devozione a scopo taumaturgico, il tutto accompagnato dea canti di una liturgia popolare non codificata.
Si dice, poi, che nella notte del giorno celebrativo del Santo, gli animali abbiano ad acquistare il dono della favella e possono esprimersi nei confronti dei padroni. Ed in segno di ossequio agli animali, mai, il giorno del Santo, si dovrebbe macellare, altrimenti Egli interverrebbe a salvare… la vittima, di solito il maiale, facendola fuggire ed in tal modo privando la famiglia contadina di uno dei principali beni di sussistenza.
Ma quante altre cose si raccontano del santo… Dal fare bere i bambini dalla sua campanella per favorire la capacità di camminare, fino all’invocarlo per la malattia che tuttora porta il suo nome (fuoco di Sant’Antonio) per fare cessare la quale a Vienna, nel Delfinato, si edificò una grande cattedrale in suo onore per ospitare i resti, portati in Europa dai Crociati dopo varie vicissitudini.
I monaci suoi seguaci andarono qua e là fondando ospizi per i pellegrini diretti in Francia. Per questa loro caratteristica, gli “Antoniani” ebbero il “privilegio” di ingrassare gratuitamente il maiale del convento… che è poi, a detta di alcuni, lo stesso animale effigiato insieme a Sant’Antonio.
Santo generoso, Antonio, anche troppo! “Troppa grazia, sant’Antonio!” sembra abbia detto, per la prima volta dando vita ad una espressione gergale, un tizio sbalzato dal cavallo dopo che aveva chiesto al vecchio abate di fare smuovere il suo troppo pigro ronzino…
E pure Santo gastronomico, nella sua ovvia semplicità; “Sant’Antoni chisöler” dicono in Emilia, ove il “chisöler” è il fabbricante di “chisöla”, gustosa focaccia arricchita da ciccioli, naturalmente di maiale, animale che da queste parti chiamano confidenzialmente “ninein”, ma che poi tutti mangiano di gusto. La “chisöla” cotta per Sant’Antonio, ha forse anche una potenza di magia…
Di miracoli sembra che Antonio Abate ne faccia non pochi: piccoli miracoli, se vogliamo, come quello di fare ritrovare le cose smarrite. Da qui nasce una popolare invocazione: “Sant’Antoni dla barba bianca / Famm truvà quel ch’amm manca”.
Esistono particolari invocazioni liturgiche per il Santo (in lingua latina dai vecchi messali romani); vi sono tanti modi di invocare l’opera, ma, anche Lui, ha un Superiore a cui rendere conto: “Dio t’aiuta / e Sant’Antoni”.


Leggo in “La transumanza nella provincia di Perugia”, a cura di Egildo Spada (anno di pubblicazione: 2005, per conto della Provincia di Perugia), quanto riporta Mario Tosti nel capitolo “santi e santuari della transumanza”:

«… Lo stesso Teseo Pini ricorda anche che gli abitanti della Valnerina, in particolare quelli di Cerreto,… , erano famosi questuanti di elemosine, soprattutto per l’ordine ospitali ero di S. Antonio di Vienne, promotore del culto di S. Antonio abate, specializzato nella cura degli animali.
S. Antonio abate è considerato il “patriarca” del monachesimo e sulla sua figura esemplare e per il modo di concepire la vita cristiana come ascesi individuale e totale rifiuto del mondo si è modellato il sistema di vita anacoretico degli Antoniani, suoi compagni e discepoli; nel secolo XI, Antoniani di Vienne furono appunto denominati i membri di un ordine ospitali ero, approvato da Urbano II nel 1095, che si dedicavano alla cura dei malati di fuoco sacro o fuoco di S. Antonio, malattia epidemica del Medioevo. S. Antonio era venerato come patrono degli animali domestici: la tradizionale iconografia lo vuole raffigurato con un bastone, un campanello, una fiamma e accanto un porcellino; mentre il bastone rimanda alla scelta eremitica, il campanello stava ad indicare la limitazione del diritto di libera circolazione dei maiali allevati sotto il suo patrocinio, che prima di una disposizione, emanata nel 1905, avevano invece libero accesso in tutti i campi dei parrocchiani; la fiamma indicava invece la malattia contagiosa detta fuoco di s. Antonio che i monaci dell’ordine curavano appunto con il grasso di maiale…».

Canto per la festa di sant’Antonio abate

(in: “L'Umbri cantata. Musica e rito in una cultura popolare”, di Valentino Paparelli, squi[libri] Editore, Roma 2008)

La qualifica di protettore degli animali e di simbolo, insieme a San Martino, dell’abbondanza ha sempre garantito a Sant’Antonio Abate (detto anche “del porcello”, per distinguerlo dall’omonimo santo di Padova, per via della costante presenza nell’iconografia tradizionale dell’animale ai suoi piedi) un forte radicamento nella devozione popolare contadina non soltanto italiana e, di conseguenza, alla sua festa un posto di tutto rilievo nel calendario rituale agricolo. Col tempo, la festa ha inevitabilmente perduto i ricchi apparati extraliturgici ed anche extrareligiosi che l’hanno sempre caratterizzata: dalle rappresentazioni, generalmente incentrate sulla lotta di Sant’Antonio col diavolo, che in alcune regioni, in Abruzzo per esempio, accompagnavano il canto di questua; al banchetto notturno del 16 gennaio, giorno della vigilia; alla distribuzione gratuita di cibo.
Di difficile soluzione è il problema posto dalla distanza tra le credenze popolari fiorite, numerosissime, intorno al santo e la tradizione agiografica colta, rappresentata in particolare dalla Vita Antonii scritta da Sant’Atanasio, suo discepolo, nel IV secolo [d. C.]. Non si capisce come questo monaco egiziano [“l’africano del deserto dei ceri di Gubbio”, mi risponde una attenta e competente lettrice], vissuto molto a lungo tra il III e il IV secolo d. C., simbolo di un ascetismo elitario e, a suo modo, perfino aristocratico, possa essere diventato il santo bonaccione e “alla mano” che tutti conosciamo. Come si sia potuto passare dall’anacoreta, che ha rinunciato a qualsiasi contatto col mondo reale, al nume tutelare di quanto di più reale e concreto possa essere immaginato, gli animali e i frutti della terra; dal campione dell’ascetismo più rigoroso alla figura giocherellona, che in alcuni canti si diletta con la fionda e fa sassaiole; dalla figura terrifica, che dispensa punizioni tremende a coloro che infrangono la sua legge, alla macchietta fissata in altri canti (Sant’Antonio che nella lotta col demonio si fa rubare i bottoni mentre si cuce i calzoni o che si fa rubare la forchetta mentre mangia), non è dato sapere.
La stessa caratteristica che lo identifica come protettore degli animali desta perplessità, se rapportata alla tradizione colta. Nella Vita, una delle opere agiografiche più diffuse, tradotte e lette di tutta la Cristianità, fonte di ispirazione per secoli di artisti e letterati, Atanasio non si limita, infatti, a parlare delle componenti di intransigenza e di radicalità della scelta ascetica dell’anacoreta di Coma – la sua totale indifferenza al mondo, il rifiuto della scrittura come possibile strumento di contaminazione e il disprezzo per la cultura -, ma riferisce anche del collegamento degli animali al demonio che appare al santo di volta in volta nelle sembianze di serpenti, orsi, scorpioni, leopardi, iene e lupi. Non solo, ma nell’episodio dell’invasione del suo orto da parte di alcune belve la loro cacciata non sembra improntata a sentimenti di grande trasporto e benevolenza.
Sant’Antonio è inequivocabilmente frutto di un fenomeno di sincretismo religioso, per il quale sulla sua figura convergono istanze di tutela magico-protettiva di origine pagana. Ciò che risulta difficile da capire è su quale componente della sua figura, quando e, soprattutto, perché si innesta il processo di trasfigurazione che farà di Antonio di Coma il santo con il porcello.
Dell’apparato culturale della festa, in Umbria sono sopravvissuti soltanto il canto di questua e la benedizione degli animali e delle ciambelle (che in alcune regioni vengono fatte mangiare anche agli animali in funzione protettiva). È pure sopravvissuta la credenza che la notte del 16 gennaio gli animali parlino e che sia vietato ascoltarli, perché di cattivo auspicio. Del canto, abbiamo registrato due varianti della stessa versione: una è quella qui pubblicata [vedi sotto], l’altra è stata registrata a Caroci (Arrone) il 12 gennaio 1974. In entrambe il canto è incentrato sulla scelta del santo che abbandona le ricchezze della famiglia e si ritira nel deserto e sul suo potere protettivo. Mancano, invece, riferimenti alla lotta con il diavolo, elemento costantemente presente nelle versioni rilevate in altre regioni dell’Italia centrale, area nella quale il canto è particolarmente diffuso. Probabilmente si tratta di una componente caduta col tempo dall’uso.

Ecco il nostro sant’Antonio (2’ 34”)
Canto rituale di questua per la festa di Sant’Antonio Abate
(registrazione del 13 gennaio 1980 a Buonacquisto di Arrone, Terni)

Ecco il nostro Sant’Antonio
e protetto e sia secondo
nominato per tutto il mondo
ma per la sua gran santità

[tra li bovi e le cavalle
le disgrazie discacciava
e dal cielo li moderava
li gran castighi del Signo’
e dal cielo li moderava
li gran castighi del Signo’]

Sant’Antonio fraticello
si diverte coi pastori
ogni momento e a tutte l’ore
ma le disgrazie a ripara’
ogni momento e a tutte l’ore
ma le disgrazie a ripara’

ecco l’angelo che viene
è Maria che ce lo manda
e venite tutti quanti
ma Sant’Antonio a festeggia’
e venite tutti quanti
ma Sant’Antonio a festeggia’

e per quanto noi diciamo
più di questo non ci resta
e di fargliela una gran festa
e di onorarlo sempre più
e di fargliela una gran festa
e di onorarlo sempre più


Come quasi tutti i canti rituali umbri, anche quello dedicato alla festa di sant’Antonio Abate (17 gennaio) è un canto di questua. L’offerta propiziatoria – i soliti generi alimentari con una prevalenza, vista la concomitanza col periodo nel quale si uccideva il maiale, di carni suine – era finalizzata all’ottenimento da parte del santo della protezione degli animal8i e alla propiziazione della loro fertilità e dell’abbondanza. Coerentemente con quanto evidenziato nella parte introduttiva sull’argomento, anche in questa versione colpisce la discrasia esistente tra l’immagine dell’anacoreta affidata all’agiografia ufficiale, e incentrata sull’ascesi elitaria e radicale da lui praticata, e il santo sollecito riparatore delle disgrazie e che “si diverte coi pastori”.
… Una caratteristica peculiare di questa versione, a suo modo una forma di rifunzionalizzazione del rito, consiste nel fatto che l’offerta richiesta non erano più i generi alimentari soliti, ma il denaro, che però non era destinato ai questuanti, ma all’organizzazione della festa. …

Nel deserto dell’Egitto
canto di questua per Sant’Antonio Abate

Sia in “Canti popolari italiani” di Giuseppe Vettori (Newton Compton Editori, 1976), che in “I canti popolari italiani” di Roberto Leydi (Oscar Mondadori, 1973), viene riportato questo canto, raccolto originariamente da N. Jobbi nel 1965 a Cerqueto di Fano Adriano (TE).
Scrive Leydi: «Forme rituali più o meno complesse (fino a strutture rappresentative abbastanza articolate) connesse alla celebrazione di Sant’Antonio Abate (o Sant’Antonio del porcello…) sono segnalate dalla letteratura folk lorica italiana per quasi tutte le regioni del nostro paese, ma l’area dove questi riti sembrano aver avuto (…) più larga presenza è quella incentrata sull’Abruzzo.
La forma più comune di celebrazione del rito è la questua, effettuata di casa in casa, con il canto della vita del santo, da gruppi di cantori e musicanti i quali ricevono, in compenso, vari doni, ma soprattutto prodotti della macellazione del maiale.
E’ probabile che all’origine il culto di Sant’Antonio abbia avuto soprattutto presenza nella cultura pastorale e poi sia passato a quella agricola. In questo passaggio, il rituale avrebbe acquistato l’uso dei “fuochi”, il cui scopo magico è di “riscaldare” la terra, in vista della rinascita primaverile. I “fuochi” per Sant’Antonio sono accesi ancor oggi fino alle porte di Milano.

NB: Secondo Atanasio, Antonio Abate sarebbe vissuto centocinque anni, dal 251 al 356 [d. C]. Avrebbe trascorso la maggior parte della sua lunga vita in un eremo sul fiume Nilo. Nella tradizione abruzzese, Sant’Antonio è detto “di jennare” (di gennaio), o “de la varve” (della barba [bianca?]), o “di lu campanelle (del campanello)”, o “di lu purcelle (del porcello)”. …

Ecco il canto:

Nel deserto dell’Egitto
noi remiti mendicanti
noi veniamo coi sacri canti
d’un gran santo, d’un gran santo a celebrar.

Vi cantiamo la santa vita
dell’eccels’Antonio Abate
le cortése a noi mostrate
belel donne, belel donne il vostro cor.

Ricco e nobile nacque Antonio
disprezzò le sue ricchezze
nonostante le dolcezze
tutt’a Dio, tutt’a Dio si consacrò.

Ripartito il patrimonio
donò parte a sua sorella
ch’è devota figlia e bella
tutt’a Dio, tutt’a Dio si consacrò.

E quel povero eremita
si rinchiuse nel deserto
giovinetto poco esperto
per amore, per amore del buon Gesù.

Fé di l’erba scarso pane
fu la mensa sua gradita
fu cent’anni e cinque in vita
nei rigori, nei rigor di povertà.

Vedi tu che presto siamo
dà la mano al tuo nemico
fatti presto a farti amico
per qual Dio, per quel dio che ci salvò.

Fu eseguito senza stono
in raffronto al nostro canto
viva sempre Antonio santo
cose buone, cose buone in quantità.

Ci darete voi signori
ricompensa al nostro canto
viva sempre Antonio santo
cose buone, cose buone in quantità.





Daniele Crotti

Inserito domenica 17 gennaio 2021


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