05/05/2024
direttore Renzo Zuccherini

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L’elezione popolare del Presidente del Consiglio: una deriva autoritaria
La sostituzione della forma di governo parlamentare mira a cambiare la Costituzione democratica e antifascista grazie al patto scellerato tra autonomia differenziata voluta dalla Lega e elezione popolare del “capo” del Governo, sostenuta da FdI. Non resta che prepararsi a una dura opposizione





Tra la fine di agosto e i primi di settembre sono circolate due bozze sul cosiddetto Premierato elaborate nell’ambito del Ministero per le riforme istituzionali, anche se la ministra Casellati ha disconosciuto la “maternità” della prima. Ai primi di agosto Renzi si era portato avanti col lavoro facendo presentare al Senato un disegno di legge di revisione costituzionale di Italia Viva che prevede l’elezione popolare del Presidente del Consiglio. A ottobre il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare un ddl governativo, prima discusso in un vertice della maggioranza. Dunque la scelta di fondo sembra essere stata fatta: è il cosiddetto Premierato a elezione diretta della persona posta alla guida del Governo. La prima considerazione da fare è che tale scelta non dà affatto attuazione al “mandato degli italiani”, come ha proclamato la Meloni in un intervento pubblico tenuto ad Ancona l’8 maggio. Intanto va ricordato che la coalizione di destra-centro alle elezioni politiche non ha avuto la maggioranza assoluta dei voti, ma il 43,79% alla Camera e il 44,02% al Senato che, dato l’alto livello dell’astensione (il 36,09%), rappresentano tra il 26 e il 27% degli elettori. Poi va rilevato che nel programma elettorale della coalizione si parlava di “elezione popolare del Presidente della Repubblica”, con evidente riferimento alle ipotesi presidenziale (come quella degli Stati Uniti) o semipresidenziale (come quella della Francia) e non all’elezione del Presidente del Consiglio. Non a caso nella legislatura precedente Fratelli d’Italia aveva presentato un ddl costituzionale, poi respinto dalla Camera, che proponeva l’imitazione del modello francese (anche se bizzarramente accompagnato dalla sfiducia costruttiva, istituto che non ha nulla a che vedere con l’ipotesi presidenziale in quanto consente al Parlamento di sostituire il Primo ministro nominato dal Presidente). La preferenza della destra per la V Repubblica è derivata dalla natura più verticistica e squilibrata del modello francese rispetto a quello nordamericano
L’abbandono dei sistemi presidenziali è derivato dalla loro difficoltà manifesta di fare fronte alle crescenti fratture che li caratterizzano (economico-sociali, politiche, territoriali, etniche, culturali, politiche), che negli Stati Uniti hanno messo in crisi il funzionamento dei contrappesi e prodotto un Presidente come Trump a vocazione golpista, e in Francia hanno distrutto il bipolarismo del sistema dei partiti e dato vita a un’Assemblea nazionale priva di maggioranza. Quindi si pensa che solo l’elezione popolare del “capo” del Governo può garantire il predominio di una persona e la verticalità della forma di governo. A tale fine viene rispolverato un modello, proposto n Francia nel 1956 da Duverger e ripreso in Italia da vari costituzionalisti (Galeotti, Barbera, Pitruzzella, Frosini), che non è attualmente applicato in nessun paese democratico e ha avuto un solo precedente tra il 1996 e il 2001 nello Stato di Israele che l’ha rapidamente abbandonato. I sostenitori italiani hanno parlato di “forma di governo neoparlamentare”, estendendo il termine come una pelle di zigrino anche alle ipotesi in cui il Primo ministro sarebbe non eletto ma indicato dal popolo il che equivarrebbe ad una elezione “di fatto” (così Ceccanti). In realtà l’indicazione popolare deriva da regole convenzionali non scritte, come quella che nel Regno Unito prevede la nomina del leader del partito che ha vinto le elezioni, il che non impedisce la sua sostituzione durante la legislatura (com’è avvenuto per dieci volte nel secondo dopoguerra). Inoltre nella grande maggioranza dei sistemi parlamentari la crisi del bipolarismo, determinata dal calo dei partiti tradizionali e dall’accesso al Parlamento di forze politiche nazionaliste di destra, rende difficile la formazione di coalizioni preelettorali, prolunga il tempo necessario per la formazione dell’esecutivo (altro che “il Governo la sera del voto”!) e dà vita il più delle volte a coalizioni postelettorali.
In realtà l’elezione diretta del vertice del Governo non è una variante della forma di governo parlamentare, ma la sostituisce con un sistema che costituisce una deriva presidenzialista (degenerativa rispetto al sistema presidenziale). Infatti vengono annullati due elementi essenziali del parlamentarismo: l’emanazione permanente del Governo dal Parlamento e la flessibilità che può portare alla sostituzione di un Primo ministro incapace e/o che non abbia più il sostegno della maggioranza. Non meno distruttiva della forma di governo vigente è la proposta renziana del “Sindaco d’Italia”. L’applicazione a livello nazionale del sistema praticato nei Comuni e in quasi tutte le Regioni è abnorme in quanto pretende di uniformare figure istituzionali nettamente distinte per ruolo e poteri esercitati. Inoltre la deriva presidenzialista è dimostrata per tabulas dall’enorme potere attribuito a Sindaci e Presidenti regionali, alla ricerca spasmodica di più di due mandati in spregio del rispetto degli equilibri costituzionali e del principio democratico del ricambio dei titolari del potere esecutivo.
Le bozze Casellati e il ddl renziano assumono natura eversiva e di affossamento delle garanzie costituzionali, come hanno denunciato autorevoli costituzionalisti (Cheli, Azzariti, Ainis, Silvestri). Diverrebbe Presidente del Consiglio il candidato che raggiunga il 40% dei voti, senza che sia sicuro neppure il ballottaggio qualora nessuno abbia quella percentuale (il ddl Renzi non lo prevede e la Lega è contraria). In pratica potrebbe essere eletto da una maggioranza relativa dei voti, che corrisponderebbe a circa un quarto degli elettori. Ma vi è di più: l’elezione del Presidente del Consiglio avverrebbe in stretta connessione con quella delle Camere tramite un'unica scheda elettorale che darebbe la vittoria al candidato più votato e l’attribuzione di un premio di maggioranza del 55% dei seggi alla coalizione alla quale è collegato. Viene quindi messo in discussione l’equilibrio tra Governo e Parlamento, in quanto il voto per l’assemblea e la sua composizione sono condizionati da quello dato al candidato vincente, con una violazione del principio della indipendenza del Parlamento che deve essere assicurata fin dalla fase costitutiva Inoltre si propone la costituzionalizzazione di un aspetto fondamentale del sistema elettorale, l’attribuzione del premio di maggioranza, mentre è opportuno ricordare che tra i ventisette paesi della UE ben sedici sanciscono nella Costituzione il principio della proporzionalità del sistema elettorale. Infine la proposta viola la libertà degli elettori, che non avrebbero il diritto di esprimere un voto disgiunto e il cui suffragio sarebbe conteggiato comunque a favore di un candidato-Premier o di una coalizione anche se non gradito/a.
Il Presidente del Consiglio è praticamente inamovibile. L’approvazione di una mozione di sfiducia comporta lo scioglimento automatico delle Camere. Nella seconda bozza Casellati in caso di dimissioni, morte o impedimento permanente (per le quali il ddl Renzi stabilisce comunque lo scioglimento delle Camere come avviene nei Comuni e nelle Regioni) il Premier può essere sostituito con l’approvazione di una mozione contenente il nome di quello nuovo, ma solo se approvata dalla maggioranza originaria che ha sostenuto il Governo. Viene riesumata quindi la “norma antiribaltone”, contenuta nella riforma Berlusconi del 2005 bocciata nel referendum del 2006, che, dando rilievo solo ai voti provenienti dai parlamentari di maggioranza, viola principi supremi dell’ordinamento costituzionale, come la parità di status dei parlamentari, che comporta la pari efficacia potenziale del loro voto, e il divieto del mandato imperativo. 
Il Presidente del Consiglio è titolare di poteri fondamentali, come la nomina e la revoca dei ministri (così nella prima bozza circolata e nel ddl Renzi) e il potere sostanziale di scioglimento anticipato delle Camere. Il “Premierato” sconvolge gli equilibri costituzionali. All’interno del Governo il principio collegiale è soppiantato da quello monocratico. Viene pregiudicato il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, il quale perde nella sostanza i due poteri fondamentali di formazione del Governo e di scioglimento delle Camere e, godendo di una legittimazione ridotta nei confronti di un Presidente del Consiglio eletto dal popolo, vede svuotarsi il potere di autorizzazione della presentazione alle Camere dei ddl governativi e l’esercizio della moral suasion nei confronti del Governo. La subordinazione del Parlamento diventa assoluta sia per la modalità di elezione incentrata sulla persona del candidato vincente, sia per la natura obbligata della fiducia iniziale (sempre che non venga abrogata come prevede il ddl Renzi), sia per la minaccia di scioglimento automatico qualora per due volte di fila non conceda la fiducia o approvi una mozione di sfiducia. Da ultimo l’elezione diretta affosserebbe definitivamente il ruolo dei partiti che si ridurrebbero a comitati elettorali chiamati a sostenere un candidato alla guida del Governo. 
I due argomenti a sostegno della proposta sono la garanzia della stabilità e la maggiore partecipazione derivante dalla democraticità della scelta popolare del Governo. Ora, la stabilità è drogata dalla inamovibilità del Presidente del Consiglio anche se incapace e senza la fiducia di una parte consistente della sua maggioranza. La verità è che l’instabilità del Governo è dovuta a fattori politici, come l’eterogeneità delle coalizioni che vincono le elezioni, e non istituzionali. Il principio democratico viene svuotato della sua sostanza in quanto si riduce alla scelta elettorale di un governo che deve durare per l’intera legislatura, limitando la partecipazione popolare tra un’elezione e l’altra. Infine l’astensionismo elettorale è progressivamente cresciuto in Italia anche nel periodo in cui il sistema politico ha avuto un funzionamento di tipo bipolare e gli elettori votando per il Parlamento esprimevano una indicazione di governo ed è stato ancora più forte nelle elezioni comunali e in quelle regionali del 2023 incentrate sulla derivazione popolare del capo del potere esecutivo, con una partecipazione inferiore al 50% degli aventi diritto e la conseguente elezione di Sindaci e Presidenti che hanno avuto il consenso effettivo tra il 20 e il 30% degli elettori. In realtà alla crescita dell’astensionismo hanno fortemente contribuito sistemi elettorali che comprimono la libertà del voto (più di tutti il Rosatellum con le liste bloccate e il divieto del voto disgiunto tra uninominale e proporzionale).
La sostituzione della forma di governo parlamentare mira a cambiare la Costituzione democratica e antifascista grazie al patto scellerato tra autonomia differenziata voluta dalla Lega e elezione popolare del “capo” del Governo, sostenuta da FdI. Si tratta di uno scambio contraddittorio in quanto diretto a rafforzare simultaneamente le competenze e le risorse finanziarie delle Regioni da una parte e il ruolo della persona posta al vertice del governo centrale dall’altra. Per certi versi esso realizzerebbe una divisione di compiti: da un lato Presidenti regionali onnipotenti che gestirebbero materie essenziali (salute, istruzione, lavoro, infrastrutture ecc.), dall’altro un Presidente del Consiglio al quale rimarrebbero la gestione securitaria dell’ordine pubblico, la politica economico-finanziaria di compressione degli strati sociali più disagiati e dei lavoratori, il controllo della giustizia tramite pubblici ministeri subordinati alla volontà del potere esecutivo. Non resta che prepararsi a una dura opposizione.



Mauro Volpi

Inserito venerdì 6 ottobre 2023


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