23/09/2023
direttore Renzo Zuccherini

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E sia poesia


A cura di GIO2 (Giorgio Bolletta e Giorgio Filippi)


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Anche se la poesia non ferma la guerra

La nuova primavera nella poesia di Giorgio Filippi

(Giorgio Filippi visto da Moreno Chiacchiera)

di Paolo Pablos Parigi


Vieni maggio

dai arriva

porta via 

questa stupida

buriana di guerra


da troppe sere

nelle orecchie

il brontolare

cupo del mare

rimane

 prepotente

aggrappato alla gola


spengo la luce

 provo a dormire


Maggio dai arriva

regala 

il caldo profumo

del tuo sole


annegala tu la guerra

nel suo stesso inutile dolore


magari sprofondaci

tutti quanti gli arsenali

luccicanti d’oro. 


Ecco un inedito di Giorgio Filippi.

Il poeta osserva il nuovo inizio della primavera, sempre toccante, meraviglioso e rigenerante. Rifiuta la guerra che rigetta il nostro vivere quotidiano nell’inverno perenne. Da anni, il Nostro ha lasciato Umbertide e ha cantato la bellezza della luna mentre “osserva indifferente” i suoi paesaggi nativi.

Filippi ha pubblicato per la casa editrice Thyrus, sette libri di poesia: Blu Luna (1990), Selene (1998), Endimione (2013), Cyrano (2015), Azotea di Luna (2017), Elianto (2018) e Agilla (2020).

Recentemente ha ridato alle stampe un cofanetto che raccoglie tutti i testi. 

“M’accorgo che a volte la poesia d’inverno si mette in letargo. Lei torna a festeggiare il bello della primavera e i suoi colori quasi all’improvviso. Le guerre però in letargo non ci vanno mai.” 

Giorgio osserva gli avvenimenti e batte i pugni alla sua maniera sommessa ma determinata. Continua sorridendo: “Come ci ricorda Patrizia Cavalli, la poesia non cambierà il mondo ma c’è un urlo che, anche se rimane spesso muto e soffocato, non può tacere ogni volta che diviene collettivo.” Citando la poetessa di “Vita meravigliosa”, Giorgio sente che l’urlo è scritto e non deve perdersi. Il suo è un grido contro le ingiustizie e le iniquità.

Tornando ai valori del “nostro essere umani", il poeta umbertidese riprende il tema della pace, già sostenuto durante l’estate, partecipando alla lettura “Per la Pace” tenutosi in Foligno alla libreria il Salvalibro. Il bisogno di pace e di primavera per Giorgio Filippi vogliono lasciare forse intendere la volontà di tornare a pubblicare nuovamente. Noi proviamo ad augurarcelo. 




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Il gatto grigio acciambellato: la poetica di Marcella Rossi

di Giorgio Filippi

È talmente vasta la produzione letteraria, storica, poetica e fitoterapica così come quella della medicina del cibo portata avanti dalla folignate Marcella Rossi, che pizzicare qua e là qualche testo poetico diviene particolarmente riduttivo. Quando Marcella parla di “Case Operaie”, il quartiere dove è nata, fa questo racconto: “...un'interminabile costruzione lungo la Flaminia, eretta nel primo Novecento per alloggiare ferrovieri e dipendenti delle Grandi Officine... Il quartiere era crogiolo di un'umanità la più diversa.... Tra i bambini il dialetto era insopprimibile, continuo, frenetico, ammucchiato; una sorta di ubriaco cantare a colori tra giochi ingenui e perversi”.

 I suoi testi li troviamo, pubblicati in dialetto, nelle edizioni Thyrus. Il caldo d'estate e il terremoto del 1997 eccoli raccontati in folignate:

 “Co' stu callu / che vòli 'rcapezza' ?/Nun ze rispira / te lavi de sudore/ te travòji de qqua e de là/  'Stu callu/ co' lu trèmòtu pure/pòzza murì de 'n còrbu/cé vole fa crepa'.”

Quando c'è l'allontanamento da “Case Operaie” c'è anche l'abbandono del dialetto. La produzione di Marcella Rossi, poeta fin dall'adolescenza, abbraccia con l'insegnamento nei licei cittadini la critica letteraria e d'arte. Con la casa editrice Ali&no pubblica molte altre raccolte di versi. È ancora Marcella che nel 1999 traduce, per la prima volta nella lingua italiana, le poesie di Katherine Mansfield.

Sempre per Ali&no editrice pubblica rilevanti opere di Medicina Naturale, materia nella quale da decenni è fortemente impegnata anche attraverso prestigiose testate nazionali come “Re Nudo”.

Marcella ha fondato il “Cammino dell'autocura, via semplice di guarigione”.

Sapendo di far cosa gradita a quanti seguono gli studi della Rossi, ecco le sue principali opere pubblicate con Ali&no:

“La contemplazione della luna”(2000), “La via del cibo”(2002), “Metaphorica”(2003), “Dialoghi”(2004), “Diario del mondo vegetale”(vol.1- 2007), “Floriterapia,Nuovi Studi”(2008), “ “Gli oreoguaritori”(2010), “Alandrò”(2012), “Diario del mondo vegetale (Vol.2-2014), “Ohznèh”(2015), “Poesia”(2015) “Lunae”(2016), “Le torri del silenzio”(2016), “Autocura”(2017) “Fiori di Bach. Messaggi e immagini di guarigione” (2019), “Guida semplificata ai sali di Schussler”(2019), “Autunno e salute”(2019), “La civiltà del patriarcato”(2020), “Onde adriatiche”(2020), “Dialoghi sull'universo”(2022).


Da “Poesia”, edizioni Ali&no:


Nebbia                                                                Primavera                                                    

si scioglie                                                            col passo frigido

dal calor dei treni                                                delle nuvole

e sale

sale verso il sole                                                  Tu ti allontani

in veli                                                                   - e nevica la Luna-


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Bellissimo il mondo                                              Chissà se la luna ride

Il cuore una luna piena                                         le stagioni della Terra?

Avanzavi di spalle                                                Ho aperto le persiane

con un velo da sposa                                             e lei rideva oltre la Mezzanotte

Le tue cosce un sole                                              le ho sorriso

scoppiato via da un                                                non saprei dire come

candelabro                                                             tanto viviamo insieme

Il tuo passo                                                             la Luna ed io

da re                                                                        nelle notti d'Estate

verso un mare d'amore



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Miguel Hernandez, el chico de Orihuela


Muere un poeta y la creación se siente

herida y moribunda en las entrañas 


Miguel Hernández Gilabert (Orihuela, 30 ottobre 1910 – Alicante, 28 marzo 1942) è stato un poeta e drammaturgo di particolare rilevanza nella letteratura spagnola del XX secolo. Perito en lunas [Esperto in lune]  (1933), raffinato, ma sterile esercizio di stile alla maniera gongorina, a cui fa seguito l'auto di ispirazione cristiana Quién te ha visto y quién te ve, y sombra de lo que eras [Chi ti ha visto e chi ti vede e ombra di ciò che eri] (1934). All'influenza del cattolico Ramón Sijé, che segna la prima fase della sua produzione, seguono i contatti con Vicente Aleixandre e Pablo. Neruda che contribuiscono sensibilmente all'evoluzione della sua poesia; già con El rayo que no cesa [La folgore incessante] (1936) le forme classiche si aprono a toni più personali e ad emozioni violente. Durante la guerra civile milita nelle file della Repubblica, portando a sostegno della lotta antifranchista i poemi bellici di Viento del pueblo [Vento del popolo] (1937) ed i drammi riuniti in Teatro en la guerra [Taeatro nella guerra] (1937); più personale e riflessiva la raccolta El hombre acecha [L’uomo in agguato] (1939). In seguito alla vittoria falangista è condannato alla pena capitale, poi commutata in 30 anni di carcere. Muore in prigione, senza adeguate cure mediche, di tubercolosi. All'ultima fase della sua produzione appartiene il Cancionero y romancero de ausencias [Canzoniere e romancero di assenze] (pubblicato postumo nel 1958), in cui la sofferenza personale è cantata con toni commoventi, ma sempre con grande rigore stilistico.

Giorgio Bolletta


LA GUERRA, MADRE

La guerra, madre: la guerra.

Mi casa sola y sin nadie.

Mia almohada sin aliento.

La guerra madre: la guerra.

Mia almohada sin aliento.

La guerra madre: la guerra.


La vida, madre:la vida.

La vida para matarse.

Mi corazón sin compaña.

La guerra, madre: la guerra.

Mi corazón sin compaña.

La guerra, madre: la guerra.


¿Quién mueve sus hondos pasos.

En mi alma y en mi calle?

Cartas moribundas, muertas.

La guerra, madre: la guerra.

Cartas moribundas, muertas.

La guerra, madre: la guerra.


De Poemas sueltos IV 


LA GUERRA, MADRE

La guerra madre: la guerra.

La mia casa sola e senza nessuno.

Il mio cuscino senza alito.

La guerra madre: la guerra.

Il mio cuscino senza alito.

La guerra madre: la guerra.


La vita, madre: la vita.

La vita per uccidersi.

Il mio cuore senza compagnia.

La guerra madre: la guerra.

ll mio cuore senza compagnia.

La guerra madre: la guerra.


Chi muove i suoi profondi passi

Nella mia anime e per la strada.

Lettere moribonde, morte.

La guerra madre: la guerra.

Lettere moribonde, morte.

La guerra madre: la guerra.


Da Poesie sciolte IV

Trad. di Giorgio Bolletta



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Vittoria Aganoor Pompilj: come brezza d'aprile la sua poesia

Di nobile famiglia armena, Vittoria nasce a Padova il 26 maggio 1855. Si trasferisce a Venezia e a Napoli.

Giacomo Zanella è il suo primo maestro di letteratura dei classici italiani, greci e latini. Conosce da vicino gli ambienti di importanti letterati.

“....tu sei salutista, zanelliana e monarchica. E perciò quando sarò costà, ti torturerò più che potrò” le scrive affettuosamente Enrico Nencioni. Sarà proprio il periodo napoletano a fornirle l'occasione per lo studio della poesia italiana e straniera contemporanea.

Vittoria Aganoor  scrive per le principali  riviste letterarie : “Nuova Antologia”, “Roma Letteraria”, “Marzocco”. Tiene una fitta corrispondenza con Domenico Gnoli. Nel 1900 l'editore Treves pubblica la raccolta “Leggenda Eterna”.

E' il 28 novembre 1901,Vittoria sposa lo statista Guido Pompilj e ariva in Umbria proprio a Monte del Lago.

“ridean nel pleniluneo sereno/ l'isole, e il lago parea d'argento,/ il mio selvaggio e dolce Trasimeno”

“Nuove liriche” è la sua seconda raccolta.  “Poesie Complete” edito da “Le Monnier” arriva alle stampe solo dopo la sua morte avvenuta nel 1910 in una clinica romana. Era la notte tra il 7 e l'8 maggio. Poche ore dopo il marito Guido si toglie la vita con un colpo di pistola.

Giorgio Filippi



Canto d'Aprile

Canta una voce:- O genti dolorose

io vengo, io vengo! Aprite alle speranze

il core, aprite le rinchiuse stanze

alla giungente carica di rose.


Io vengo,io vengo! Ogni deserto ed ogni

rupe fiorisce; levate la testa

e sorridete; io vengo per la festa

meravigliosa, carica di sogni.


D'un più costante e luminoso Maggio

la promessa vi reco. O contristati

cuori, o negletti, o vinti, o disamati,

o vacillante umanità, coraggio!


Il Canto dell'Amore

Può dunque una parola, una sommessa

parola, detta da un labbro che trema

balbettando, valer più d'un poema,

prometter più d'ogni miglior promessa?

Può levarsi, a quel suono, una dimessa

fronte, raggiando, qual se un diadema

la cinga, e può dar tanto di suprema

gioia, che quasi ne rimanga oppressa

l'anima?... Io credo svelga oggi dai cuori

ogni ricordo d'amarezza, ormai

sazio d'umane lacrime, il destino.

E' così certo! Non mai tanti fiori

ebbe la terra, e il cielo non fu mai

né così azzurro, né così vicino!

 

Da “Leggenda Eterna” Casa Editrice Nazionale” Roux e Viarengo, Torino-Roma  1903


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Poesia che zitta germoglia dal dialetto

Secondo Sciascia, “la differenza sostanziale tra dialetto e lingua sta nel fatto che nessuna opera di pensiero (intendendo quello sistematico e metodico) può essere scritta in dialetto" mentre l’uso del dialetto "consente di raggiungere la madre". E, forse, è perché il dialetto apre la porta ai pensieri più intimi che oltre che nel parlato familiare e tra amici è in alcuni casi la lingua della poesia. Come succede a Nadia Mogini, perugina residente da lungo tempo ad Ancona che, succede a volte a poeti quando vivono lontano dalla città dove sono nati, scrive poesie nel dialetto della città d'origine.


Ed il suo non è un semplice dilettarsi con il dialetto, con esso riesce a scavare non solo dentro di sé ma anche nella lingua madre ritrovando parole dimenticate persino a Perugia, altre circoscritte al suo lessico familiare mentre altre ancora paiono filtrate dalla sua cultura. Lo ha fatto scrivendo del percorso doloroso, molto doloroso, che la vita costringe a vivere quando si perde una persona amata. Un dolore espresso nel canto poetico di “Ìssne” (Andarsene), titolo bellissimo che dà slancio a una raccolta di struggente bellezza. Per i toscani struggere è anche sinonimo di sciogliere e i versi di “Ìssne” si sciolgono in un pianto silenzioso nel quale il cuore di Nadia vibra all'unisono con quello di Lorenzo il marito che se ne sta andando mentre la poesia accudisce il dolore che la moglie prova e il sentimento che a Lorenzo la lega.


Nadia è poeta che riesce a trovare le corde più liriche di una parlata come quella perugina da questo punto di vista particolarmente ostica, lo ha fatto con “Issne” e lo ha confermato in “Gettlìni de linòrio” (Germogli di alloro), sua seconda raccolta nel dialetto perugino, che Walter Cremonte, poeta e saggista che non si fa far velo dall'amicizia nei giudizi e non esagera mai, ha definito nella prefazione "memorabile". In essa Nadia  conferma d’essere padrona in maniera sorprendente del dialetto pescando dalla sua memoria parole dimenticate e belle. È grazie a questa raccolta che ritroviamo “gaucciolo” per gomitolo, “bufa” per la neve, “scalàmpa” per schiarisce, “ciabattà” per un camminare rumoroso; così come riconosciamo la padronanza del dialetto nell’utilizzo del diminutivo e vezzeggiativo per descrivere situazioni forti o pesanti da sopportare, chiamando “penina” una “pena struggente” (i perugini, per esempio, chiamano “tramontanina” il vento quando soffia forte e gelido).

Una liricità che mantengono le versioni in italiano delle poesie. Non sono semplici traduzioni dell’autrice, ma poesie esse stesse che potrebbero benissimo far parte di un’autonoma raccolta in lingua italiana. Con esse Nadia Mogini dimostra d’essere poetessa “bilingue” e al lettore che si accosta alla sua poesia è raccomandabile, anche se perugino, la doppia lettura non solo, e non tanto, per capire il dialetto ma per apprezzare questa sua capacità e capire a fondo la sua poesia. Ci vuole tempo a scrivere poesia, un po' di tempo bisogna restituirglielo nel leggerla, perché è dopo questa doppia lettura, questo pendolare da una versione all’altra che dai versi di Nadia si sprigiona compiutamente la sua poesia che zitta “gettla” e si manifesta come un germoglio appena sbocciato.

Vanni Capoccia


Da Ìssne


Guasi che par na colpa

sto scrive zzitta e bòna

dappiédi al letto tuo

ché dormi artificiale.

Cerco il sòn dle parole

per ninnà quil che drénto

me dòle e pur me dòle.


*


La casa, zzitta, penzza

con quil’ educazzione

de chi à riguardo

e sente la mancanzza.



Da Gettlìni de linòrio


Zzitta


Zzitta, vojo sta zzitta


zzitta a guardà la notte

a gettolà le stelle

stretto coi denti l fiato

pe n dà sturb’al criàto.


Zzitta a odorà la terra

a stricolàje i zzuppi

e gèmmna doppo gèmmna

a ndovinà la vita.


Zzitta a succhià la bufa

che goccia da le mano

sapor de n altro mondo

di summi de na fiòla.


Zzitta a sentì le foje

j’api che ciúccion l’ua

la ranzla di granòcchi

n cane che chiama n omo.




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La guerra mi ha preso il marito

Autrice anonima cinese dalla dinastia Chou (1066 – 403 a. C.)

Le guerre non si vincono si fermano. Non c'è nessuna guerra da vincere in Ucraina. Dobbiamo solo fermarla. A questo servono, o dovrebbero servire, i vasti apparati diplomatici. Non vogliamo rimanere in silenzio contro questa guerra in Europa e la minaccia di “missili nucleari tattici”. Non possiamo sentirci solo impotenti. Forte è il nostro grido contro la guerra. Con una lirica di un’autrice anonima  cinese lo facciamo arrivare da lontano. Discende dalla dinastia Chou (1066- 403 a.C.) per riaffermare ai giorni nostri la “divina grandezza della pace”

Gio2


Tratta da “Poesie e canti popolari di pace cinesi”, a cura di Franco Cannarozzo, Guanda editore, 1960.


La guerra

mi ha preso il marito;

gli sarà concesso

di vedere ancor la sua casa?

Così disperata mi chiedo.


Marito mio, perché è necessario

che tu non possa venire?


La sera già scende,

le galline vanno a dormire,

dai pascoli

le mucche e le pecore tornano.


La guerra

L'ha preso e lo tiene,

così

a che altro posso pensare?


Mio marito

è andato in guerra. Questo

non è semplice come andare

e in due giorni o due mesi

ritornare -----

oh, ma non avrà mai fine la guerra?


Le galline ora dormono, 

il bestiame è nella stalla.


Tutto è presente qui, ad eccezione

di chi darebbe un senso a tutto questo.

Per te non ci sarebbe più fame,

marito mio, né sete.

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“Come vento sul monte”: il canto di Saffo

 J.W. Godward, Il giorno di Saffo (1904), Los Angeles, Getty Museum


L’amore, con tutte le sue variegate implicazioni, nella lirica monodica di Saffo, diventa protagonista assoluto offrendo riflessioni psicologiche, attraverso le quali la poetessa mette a nudo sé stessa, esprimendo emozioni a divinità o ad esseri umani, evocando altresì infatuazioni amorose per soggetti femminili, non sempre concretizzatesi e ricambiate. La spiccata natura introspettiva della poetessa, caratterizzata da una forte vena intimistica, la porta a considerare tutti gli elementi della natura come entità intrisi di sacralità che invitano alla contemplazione della bellezza, e viene espressa attraverso una poesia raffinata e sublime, composta da versi sensibilissimi e delicati.

Tralasciando la rivalità del tutto campanilistica, sulla natività della poeta (630 a.C. – 570 a.C.), tra le città di Ereso e Mitilene, entrambe situate nell’isola di Lesbo, rileva, invece, l’origine aristocratica della sua famiglia, coinvolta nelle lotte politiche tra i vari tiranni che, all’epoca, si contendevano il dominio di Lesbo, a seguito delle quali, ai tempi della caduta dei Cleanattidi, fu esiliata in Sicilia da Mitilene per circa un decennio. Regnante Pittaco, fautore di restrizioni improntate a rigida austerità verso lo smodato lusso della classe aristocratica, la poetessa rimpatriò, diventando direttrice ed insegnante di un tìaso (originariamente associazione religiosa dedita al culto orgiastico di Dioniso), che lei improntò al culto di Afrodite, sorta di collegio per giovani fanciulle di nobili famiglie, da formare ai valori aristocratici del tempo quali l’amore, la delicatezza, la grazia, la capacità di sedurre, il canto, l’eleganza raffinata dell’atteggiamento. Alla dea dedicò un celebre inno, ricalcato sulla forma di quelli omerici ma umanizzando il rapporto con la divinità che diviene confidenziale. All’interno del tìaso erano inevitabili rapporti di omoerotismo, sia tra le allieve, che tra esse e Saffo: rapporti non solo tollerati ma anche incoraggiati nella società della Grecia arcaica, poiché si riteneva essere propedeutico all’amore eterosessuale del matrimonio. La fine del percorso collegiale delle sue amate, lasciò inesorabilmente un vuoto ed una solitudine amorosa nella poetessa, sentimenti a lungo covati che, con lo svanire della sua giovinezza, la portò ad esprimerli nel sublime frammento poetica “Tramontata è la luna”. Nonostante i due temi principali di questa lirica monodica siano, come sopra già riportato, l’inesorabile trascorrere del tempo e la solitudine amorosa, è oramai unanimemente riconosciuta anche e soprattutto la valenza erotica del carme.  

La trasversalità temporale e di genere dei sentimenti amorosi, dunque, non genera diverse forme di amore ma un’unicità amorosa.   

Joel Gentili


Tramontata è la luna

Tramontata è la luna

e le Pleiadi a mezzo della notte

anche giovinezza già dilegua,

e ora nel mio letto resto sola.

Scuote l’anima mia Eros,

come vento sul monte

che irrompe entro le querce;

e scioglie le membra e le agita,

dolce amara indomabile belva.

Ma a me non ape, non miele;

e soffro e desidero.


Inno ad Afrodite

Immortale Afrodite dal trono variopinto,

figlia di Zeus, tessitrice di inganni, io ti supplico:

non prostrare con ansie e tormenti,

o dea augusta, l’animo mio,

ma qui vieni, se mai altra volta,

udendo la mia voce di lontano,

le porgesti ascolto, e lasciata la casa

del padre venisti

aggiogando un carro d’oro; e passeri leggiadri ti guidavano

veloci al di sopra della nera terra

con fitto battito d’ali giù dal cielo

per gli spazi dell’etere.

E subito giunsero, e tu, o beata,

sorridendo nel tuo volto immortale,

mi domandasti che cosa di nuovo soffrivo e perché

di nuovo ti invocavo

e che cosa col mio animo folle volevo che più di ogni altra cosa

si realizzasse per me: «Chi di nuovo debbo indurmi

a ricondurre al tuo amore? Chi,

o Saffo, ti fa torto?

perché se fugge presto inseguirà,

se doni non accetta anzi donerà,

se non ama presto amerà

pur contro il suo volere».

Vieni a me anche ora e liberami

dai tormentosi affanni, e tutto ciò che il mio animo brama

che per me si avveri, avveralo tu, e tu stessa

sii la mia alleata.


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“Cedi la strada agli alberi”: la poetica di Franco Arminio 

 “ La gentilezza è l’attrezzo del futuro, il rancore è un ferro vecchio” afferma il poeta in occasione di un suo intervento ad Angeli di Varano sul Monte Conero, nelle Marche in provincia d’Ancona.  All’interno di un’azienda agricola, a mio avviso, l’assoluta e indiscussa depositaria della cura del paesaggio, il poeta porta dal vivo le sue parole. Egli lavora sulla rivalutazione dei nostri paesi, delle nostre montagne sempre più abbandonate, spopolate. Insiste sul fatto che l’attenzione per il particolare potrebbe aiutare a riscoprire una vita diversa, più semplice e meno narcotizzata da un’informazione invadente, superficiale, arrogante e facinorosa. Così, il poeta ha saputo utilizzare i potenti mezzi, ovvero la rete, per raggiungere decine di migliaia di lettori, portando al mondo immagini edificanti, consolatorie, rassicuranti, profonde. Ha parlato in modo semplice di bellezza e amore.  Ha guidato molte azioni contro lo spopolamento dell’Italia interna ideando la Casa della Paesologia a Bisaccia, dove vive ed è nato nel 1960. Conia così, per l’occasione, la Paesologia, una disciplina che consiste “nell’andare a zonzo per paesi diroccati, abitandoli con il proprio spirito”. Ha ideato il festival La luna e i calanchi ad Aliano, nel 2021 ha pubblicato Lettera a chi non c’era. Nel 2022 oltre a Studi sull’Amore ha pubblicato anche Il Paese, calendario poetico. Così scrive ogni anno, più volte nell’anno pubblica sempre con sagacia ed autorevolezza. Valerio Magrelli definisce la sua poesia “ delicata, volatile, breve, ma esatta e lavorata giorno dopo giorno.  

La sua scrittura vuole trovare un rimedio, parole di conforto per qualcosa che è successo, che ha travolto una persona, una comunità o interi paesi. Visioni come fotografie descritte con poche parole misurate e pesate. Egli restituisce la freschezza e la calma di una situazione che si è dipanata nel reale probabilmente in meno di un minuto. Il nostro da buon poeta qual è, osserva e lascia scorrere la vita. Li, dalla sua panchina del paese di Bisaccia Arminio apprende la realtà, la rallenta e la restituisce alla carta. Con la medesima naturalezza del paesaggio che lo circonda, racconta la quotidiana sequenza dell’uomo impegnato a sopravvivere. 

Ogni suo componimento è una parentesi sulla realtà. Apre un mondo nuovo fatto di parole schiette, ingenue, sincere e comprensibili. Alle volte usa immagini surreali, a volte ciniche che rendono bene l’idea di quel momento teso del suo pensiero. La sua immediatezza è corporeità, è fisicamente presente. Il corpo dell’uomo bacia la donna e scompare lasciando l’odore del dopo. E’ una scia che non tutti però riescono a cogliere.  L’artista usa la musica, suona e comunica. Poi, il brano finisce e li avviene la consegna della sua arte, nell’apparente silenzio; allo stesso modo il poeta con voce calma e posata legge la sua poesia e consegna all’uditore la sua arte di paroliere del corpo. 

La vita in città al nostro autore, che è anche un quotato regista, non gli interessa, il progresso e la modernità sono corruzione perché l’uomo è allo stremo. Arminio riesce a incontrare chi legge e ama la poesia nelle piazze e nei vicoli, conducendo il suo pubblico su una strada sicura e naturale nella campagna, che sta lì, dentro il cuore di ognuno di noi.  

Si ringrazia per le notizie e le informazioni sul poeta il sito di Rivistastudio.com.

Paolo Pablos Parigi 


Poi spunta una donna  sui binari

L’universo comincia dalle sue caviglie.

Quando le donne sono così 

Daremmo ogni cosa

Per sentire l’aria

A un soffio da quel corpo,

da quella maglietta bianca

che sembra una bandiera

e sventola sulle scapole e sui seni.

Ecco un amore vero, 

senza inizio e senza fine.

Il treno che la porta via

È un buco nero.

Tratta da Dolore che combatte


La verità sulla morte

È che dobbiamo parlarne

Solo la morte può accendere l’amore,

non certo la foga dei commerci

la fretta, la noia, il progresso

Tratta da Dalle innocenze mute


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Che meraviglia arrendersi alla poesia

Ricordo di Patrizia Cavalli

Il 21 giugno 2022 è venuta a mancare in Roma, dove risiedeva, la poeta Patrizia Cavalli (nata a Todi il 17 aprile 1947).
Le dedichiamo questo commento  di Vanni Capoccia al suo ultimo volume di poesie, Vita meravigliosa.

Vita meravigliosa”, raccolta di Patrizia Cavalli, è un ulteriore capitolo del suo canzoniere che procede, raccolta dopo raccolta, non per scarti improvvisi ma per cambiamenti a prima vista appena percettibili. Leggerla è sentire una carezza diversa dal solito, il soffio d’una virgola, trovarsi a camminare per un percorso fatto tanto altre volte accorgendosi che non è mai uguale a se stesso mentre - verso dopo verso – ogni poesia diventa il tutto facendoci entrare nella vita di Patrizia Cavalli della quale lei con candore ci consente di far parte.

Sono vari gli attanti della sua poesia. I cambi di stagione. Le architetture mutevoli del paesaggio. Gli interni delle case (anche un’inabitabile dimora) descritti con rara abilità dalle scale per arrivarci, alle stanze, alle camere da letto verso le quali lei e i suoi amori si precipitano attraversando corridoi dalla “mattonella sconnessa / che a metà strada verso la tua stanza / con un suono leggero ti avvisava” e, anche se non citata, Roma presente con le sue strade e le sue piazze verso la quale Patrizia Cavalli si distende e dispiega: “città stenditi, ti abbraccio”.

Ma protagonista delle sue poesie rimane sempre lei, il suo impetuoso io, la sua “vita meravigliosa” che non imbelletta ma descrive com'è. Protagonista lo è persino in “Con Elsa in Paradiso” poemetto dedicato ad Elsa  Morante, l’amica-maestra che si è scelta e dalla quale ogni tanto sentiva d’essere portata, scelta sempre per prima, in Paradiso: un luogo senza “neanche mezza schiera di beati” che non è “altro che il prato dove stavo”. Perché Patrizia Cavalli il paradiso lo trova nella vita d’ogni giorno, nel vantaggio che procura l'avere un buon whisky in casa, nel non andare in cerca delle cose ma nel trovarle quasi per caso.

In quest’ultima raccolta si nota una certa tenerezza che coltiva verso se stessa come se fosse riuscita a perdonarsi e abbia smesso di giudicarsi; e anche se scrive che “solo agli oggetti / appartiene la vita” è chiaro che non vive solo dei ricordi che gli oggetti quotidiani e la quotidianità le suscitano ma va più a fondo cedendo alla memoria: “e persi i ricordi riacquisto la memoria” scrive in una poesia.

In questo solco “Vita meravigliosa” diventa un orizzonte da guardare. Non conta tanto quello che si comprende e distingue, ma l’impercepibile di fronte al quale si sta in silenzio senza chiedere, senza porsi domande.

Vanni Capoccia

Cosa non devo fare
per togliermi di torno
la mia nemica mente:
ostilità perenne
alla felice colpa di esser quel che sono,
il mio felice niente.

*

Vita meravigliosa
sempre mi meravigli
che pure senza figli
mi resti ancora sposa.

Volumi di poesia si Patrizia Cavalli:

Le mie poesie non cambieranno il mondo, Einaudi, Torino, 1974.
Il cielo, Einaudi, Torino, 1981.
L'io singolare proprio mio, Einaudi, Torino, 1992.
Poesie (1974-1992), Einaudi, Torino, 1992 (raccolta che assomma le tre precedenti).
Sempre aperto teatro, Einaudi, Torino, 1999.
La guardiana, nottetempo, Roma, 2005.
Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, Torino, 2006 (contiene La guardiana).
La patria, nottetempo, Roma, 2011.
Al cuore fa bene far le scale (con Diana Tejera), Voland, Roma, 2012.
Datura, Einaudi, Torino, 2013 (contiene La patria).
Flighty matters, Quodlibet, Macerata, 2017.
Vita meravigliosa, Einaudi, Torino, 2020.


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Strofe ed altri nutrimenti:
la poesia di Rita Imperatori

di Giorgio Croce

In questo orrendo periodo pandemico qualcosa di positivo è successo: per esempio, la pubblicazione dell'ultima raccolta di poesie di Rita Imperatori dal titolo “Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi”. La prefazione,  assolutamente seducente e analiticamente esaustiva, di Maria Teresa Giaveri, consiglierebbe a chiunque, e a maggior ragione al sottoscritto,  di non cimentarsi in una recensione che risulterebbe comunque meno interessante della suddetta prefazione, quindi inutile. Ma la mia ostinazione, dettata dalla fascinazione che mi provocano le poesie di Rita, mi induce in questa perigliosa impresa. La raccolta poetica, edita da puntoacapo, Rita l'ha dedicata sì a tutta la sua famiglia pelosa a quattro zampe, ma allargando l'omaggio “a tutti gli altri, ovunque siano”. Già perché Rita è mamma di tante creature che accudisce amorevolmente, con le quali ha un rapporto intenso, dalle quali riceve tanto affetto e per le quali, nei momenti tragici, soffre terribilmente. Alle amate creaturine lei dedica versi bellissimi, per esempio quando fa dire a Taskel, l'anziana cagnolona: “Non soffrire / pensando che il tempo a te mi ruba, / non farti misura del mio andare: / ogni passo con te è la mia meta, / e il percorso non subisce alcuna conta”; o confida a Betta, la capretta morta qualche tempo fa: ”Se avessi ancora le lacrime già piante / anche quelle piangerei per te / che mi sei stata figlia e, sul finire, / madre paziente che non chiedeva niente”. Rita in diversi momenti, partendo dal titolo della raccolta, “accarezza” Montale, poeta da lei molto amato, e il destino ha voluto che lo scorso anno le sia stato conferito, per la sezione “Poesia e Natura”, il prestigioso Premio “Montale Fuori di Casa”. Rita Imperatori è una persona, come direbbe Bertolt Brecht, dalla parte del torto, ovvero con un ideale civile ben orientato. Lo si legge nei versi di Inginocchiarsi il 25 Aprile, un omaggio anticonformista a questa sacra data, nella poesia Io vivo per il gesto gentile, ispirata da un fatto accaduto durante l'arresto di un ebreo, o alla commovente Non fummo gentili pur avendo ragione, lirica dedicata a Mario Grecchi partigiano diciottenne che, catturato, è stato forzatamente mantenuto in vita con trasfusioni, per essere poi fucilato a Perugia. Quando si leggono i versi di Rita, è come parlare con lei durante un tè o mentre si è sdraiati sull'erba, di casa sua, a guardar le stelle cadenti. Non c'è differenza, l'afflato è lo stesso: puro godimento.

Non fummo gentili pur avendo ragione

Poeti dai mille languori, deponete le alate parole
che sanno di zucchero a velo se volete parlare di me
che a nemmeno vent'anni dovetti sentire la vita
scorrermi in corpo soltanto per andare alla morte.

Per darmi una pena esemplare
m' han curato col sangue degli altri.
Ho ripreso le forze per reggermi in piedi
il tempo bastante a vedermi cadere.

Non fummo gentili pur avendo ragione,
perché se c'è in gioco il destino comune
non si oppongono fiori a mille cannoni.

Nei boschi intrecciammo la morte alla vita,
rinunciando ai libri e alla donna;
voi che andate in quei luoghi a raccogliere funghi
e a sera tornate nelle tiepide case,
trovate le rudi parole perché la memoria
di quello che fui – di quello che fummo -
non sia  nebbia leggera tra i respiri del giorno.

Lieve cosa è la morte

Lieve cosa è la morte
se per segni certi
si torna alla partenza.
Non c'è evidenza
di ciò che noi sentiamo
ma poco conta una prova decisiva
quando al semplice pensare
che niente è perduto per davvero
s'acquietano i tormenti
e l'ansia si muta in voglia di accudire.

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Li Tien Min

Per la pace
a cura di GIO2

L'urlo, il canto, la preghiera siano per noi, ogni giorno le parole del poeta Li Tien Min.
I “signori degli arsenali” e i loro governi asserviti tornano rovinosamente a ricordare ad una sfibrata Europa che è più difficile governare la pace che far scoppiare la guerra.
Del poeta cinese Li Tien Min (14 ottobre 1909- 24 giugno 1993) riportiamo la prima parte di un lungo testo poetico tratto da “Poesie e canti di pace della Cina antica e moderna” a cura di Franco Cannarozzo, Guanda edizioni.

Per la pace

Non importa che tu sia
uomo o donna,
vecchio o fanciullo,
operaio o contadino,
soldato o studente o commerciante;

non importa quale sia
il tuo credo politico
o quello religioso;

se ti chiedono qual è la cosa
più importante per l'umanità
rispondi
prima
dopo
sempre:
LA PACE

Questo, naturalmente,
se non sei legato
a qualche banda di reazionari
o pazzo.

Sì,
tu!
Sì, io,voi, lui
…....................

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Indizi di verità
La poesia di Brunella Bruschi

di Rossella Regni

Brunella Bruschi nasce in un vecchio quartiere di Perugia, Monteluce, che fu nucleo della città etrusca.
Laureata in Lettere classiche ha insegnato nei Licei cittadini Letteratura italiana e latina con passione e professionalità.
Ha pubblicato numerose raccolte poetiche: Gioco d'attesa, Ed.Umbria,1983; Testi pretesti lineature, Fonema Editrice, 1989; Il bistro e la sabbia, Ed. Tyrus, 1997; Drama, Ed. Tracce, 2001; DeepFocus, Ed. Guerra, 2000; Lune persuase, Fara Editore, 2007; Befane, maghi, rospi, rane e...altre creature per niente strane, Re-Active, 2008; A che titolo, Morlacchi, 2010; Elementi d'amore,  Morlacchi, 2011; Punto Smirne, Morlacchi, 2013; gli occhi, la voce, Fara Editore, 2015.
Sue liriche sono presenti in numerose antologie e riviste nazionali.
Ha ottenuto numerosi e significativi riconoscimenti tra cui il Premio “Sandro Penna”, il Premio “E. Montale” e il Premio “Nuove scrittrici”. Nel 2006 ha ottenuto il riconoscimento “Poeta umbro dell'anno” al Premio “GensVibia”.
Ci ha lasciati il 1° marzo del 2015.
    
  Per l'intera vita una forza magnetica ha attratto Brunella a scrivere versi, orientandone in più direzioni lo sguardo interlocutorio, volto a scavare nell'anima e nella natura, a indagare le cose del mondo, dei sentimenti, ma anche i nuovi modelli umani dominanti.
  La ricerca affidata ai versi è quella di una possibilità di costruire ipotesi di secondo tipo, di reperire un indizio di verità. Non è la fede nel potere magico e visionario della poesia, ma la sua forza conoscitiva a guidarla, grazie ad una vocazione all'indagine dell'intelligenza acutissima, alla passione per l'arte e la cultura, simbiotica con l'indole creativa, ad una lucida laicità che rifiuta facili consolazioni e, a ciglio asciutto, interpella le molteplici forme dell'esistenza. La qualità pulviscolare della poesia si dichiara soggetto della ricerca e dell'apertura al mondo.
  Alle opere della maturità l'esperienza di un passato recente attraversato dal dolore e dalla sofferenza ha indicato più sicuro l'approdo ad un sentimento della vita assoluto, essenziale.
  Lo scavo affidato ai versi, sempre più intenso nel tempo, ha prodotto la piena maturazione di una nuova consapevolezza: quella del rapporto più empatico con l'universo, con gli altri, dell'incontro con la pietà, generata dall'esperienza del dolore, delle lacerazioni interiori, della fragilità individuale ed universale: Se non incontri/ la tua pietà/ la scrittura è greve/manovalanza/ (e tu un treno impazzito/ senza finestrini). Lo scavo corrisponde alla messa a fuoco di un linguaggio più limpido nella sua densità, anche arduo nella tensione espressiva, con il pregio da sempre evidente dell'originalità metaforica rara, folgorante.
  Fiori e animali, testimoni della precarietà e della tenace lotta per la vita, popolano i versi accanto ai ritratti sobri e struggenti, tra i tanti, del padre e della madre, modelli diversi di un'eticità che li solleva dalla dimensione privata del canzoniere intimo, del canto , pur intenso, degli affetti familiari. Esseri iscritti entro il comune orizzonte della precarietà, dalla quale nemmeno le stelle cadenti si salvano, attori di una moralità dolorosa e delicata che salda la corrispondenza tra tutti i figli della natura, madre per nulla perla. Il lessico antilirico, icastico, attinge anche all'esattezza dei linguaggi settoriali, post-grammaticali, incastonati nel verso come pietre scabre e acuminate.
  Appassionatamente attenta ai segni del nostro tempo, per una sensibilità pedagogica aperta e dialogante, Brunella ha affidato alla poesia la denuncia del vuoto affettivo e colto l'assenza dell'alfabeto delle emozioni in giovani e adulti nei recenti anni, la difficoltà ad educarle, con l'effetto di una persistente afasia/ dell'anima.
  Se la civiltà dell’afasia dei sentimenti è vuoto, annullamento, l'antidoto è la poesia che mette in fuga almeno questa morte.
 


da gli occhi, la voce, 2015

madre per nulla perla che non hai occhi per i tuoi figli
di cui ti nutri smembrandoli brano a brano
o annientandoli in un batter di ciglia

madre che sei natura snaturando i sistemi complessi
o semplici dell'intero universo

e come un eterno carnevale giochi a travestire
     la materia
( il tuo cuore)  per sottrarla al  deperire  di tutto
     ciò che  esiste


vorrei trovare la libertà di volare via da te leggera
abbracciata  occhi e mani all'ippopotamo leggero
     di letizia


da A che titolo, 2010

L'interiorità dissolta 

Ciò che infine esplode
ha taciuto a lungo
senza dar segnali percepibili
a occhio nudo

l'interiorità dissolta porge
una normale evidenza.

Ci vorrebbe
una lente speciale
la bacchetta del rabdomante
per captare
la sostanza vischiosa

(questa cosiddetta sociopatia
dall'indifferenza
nutrita
dalla persistente afasia
dell'anima).


da Lune persuase,2007

Mi è cresciuto dentro
uno spazio nuovo
un respiro profondo
che non c'era: si sono
allineati il dolore, la
pietà, il perdono e non
so più guardare senza
trovarli insieme


da Drama, 2001

(sottilmente)

Uscire al sole come viola
di generosi colori
nel freddo aprire la pelle
al gioco canoro
che intenerisce l'aria e
sottilmente schiude umori.

(Muore da qualche inverno  
la datura, ma sempre si premura
 di dar vigore a una talea
una almeno, che le prolunghi
il vezzo di larghi calici nel vento).


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Pasolini e "Le ceneri di Gramsci"

di Vanni Capoccia

Cento anni fa, Il 5 marzo 2022, nasceva a Casarsa Pier Paolo Pasolini. Ricorrenza fondamentale per tornare al grande intellettuale italiano. Il torto più grande in questo “Centenario” sarebbe quello di fare di questo poeta, saggista, scrittore e artista un “santino” senza tentare di far tesoro del suo pensiero, delle sue domande, dei suoi dubbi così necessari nel tempo che ci è dato di vivere.

"Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: 'Cinera Gramsci', con le date" (Pier Paolo Pasolini)

Pasolini è un gigante che obbliga a pensare; la potenza delle sue idee, la forza con la quale dichiarava i suoi convincimenti, la passione e la tenacia con la quale manifestava il suo pensiero seminavano dubbi, costringevano e tuttora costringono a discutere. Oggi, in Italia dove lo trovi un intellettuale con la sua capacità di vedere cose che gli altri non vedono; che dica senza timore ciò che pensa; che abbia la sua volontà di dare voce ai pensieri di chi è messo fuori dalla storia. Chi lotta con la sua stessa tenacia contro l’omologazione e dice a voce spiegata che corrisponde alla perdita dell’identità culturale e personale. E chi è contemporaneamente poeta, narratore, saggista e regista svolgendo queste attività senza mai rinnegare il suo modo di esistere, di pensare e di esprimersi. Pasolini, un gigante che non ci siamo meritati. Tutti pronti dopo la sua morte a giudicarlo divisi tra chi vuole beatificarlo accaparrandoselo senza approfondire il suo pensiero, senza osservare il mondo dalle finestre che lui ha aperto; e spicci liquidatori che vorrebbero sbarazzarsene spaventati da quello che diceva, da quello che faceva vedere, da quello che era. Gli uni e gli altri uniti nel creare il personaggio “Pasolini”, oscurandone così il genio e condizionandone la lettura.
Gli anni '50 dal punto di vista letterario sono i più intensi di Pasolini, escono “Ragazzi di vita” (per il quale fu processato), “Una vita violenta” e “Le ceneri di Gramsci.” E siccome Pasolini ha detto che “non soltanto si lavora in poesia, ma si vive in poesia” sforziamoci di capire qualche cosa di lui a partire da “Le ceneri di Gramsci”. Pubblicata nel 1957, questa raccolta di undici poemetti è il punto più alto della poesia pasoliniana. Un volo radente sulla cultura, la storia, il paesaggio italiano nel quale si profila la visione pasoliniana di popolo, comincia a definirsi ed a caricarsi di preciso significato politico un pensiero del quale Pasolini si farà garante, divulgatore e testimone oggettivo. È un’opera di impegno civile in cui il poeta espone in tutta la loro drammaticità le contraddizioni, consapevolmente vissute, del proprio pensiero: Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te. Per Pasolini la distinzione di classe non era soltanto materialistica, stabilita dai rapporti di produzione, c’era anche una differenza antropologica e in questa raccolta c’è il confronto irrisolto tra ideologia e passione, tra il materialismo storico marxiano ed il popolo visto nel suo essere istinto e passione.
Le ceneri di Gramsci” è il poemetto centrale della raccolta cui da il nome. In esso tutto ruota intorno al Cimitero degli Inglesi detto “acattolico” nel quartiere romano, allora popolare, del Testaccio. E si nota subito il contrasto tra il battere delle incudini che sale dal quartiere e il silenzio del laico cimitero in cui è sepolto - emarginato, esiliato anche da morto – Gramsci. Dietro o in Gramsci s'individua la funzione attiva, rivoluzionaria, dell’ideologia marxista; le sue ragioni sono vere ma per Pasolini fredde come il cimitero, mentre la vita del sottoproletariato “testaccino”, pur se impura, è più calda. Gramsci rappresenta la dimensione storica, la coscienza proletaria con la quale il poeta si confronta; Pasolini ritiene che non sia portatrice di progresso che vede, invece, nella natura e vitalità prorompente del popolo la cui forza primitiva assume una valenza quasi religiosa. Ad un certo punto scrive del capo comunista: “non padre, ma umile fratello”. Fratello come Guido, partigiano di Giustizia e libertà nella Brigata Osoppo ammazzato da partigiani delle Brigate Garibaldi che combattevano con i “titini”. Gramsci indifeso e solitario come Guido, che come Guido ebbe nemici nel suo campo: non padre, ma umile / fratello - già con la tua magra mano / delineavi l'ideale che illumina / (ma non per noi: tu morto, e noi / morti ugualmente, con te, nell'umido / giardino) questo silenzio. Non puoi, / lo vedi?, che riposare in questo sito / estraneo, ancora confinato.
Gramsci viene più volte preso, ripreso e abbandonato, quasi a testimoniare la difficoltà di una sua precisa definizione. Il centro delle Ceneri, invece, è la figura del poeta. Come se Pasolini, centrando lo sguardo su di sé, trovi la forza di confrontarsi con la storia ed il pensiero di Antonio Gramsci: Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere. A pochi metri dal cimitero un'altra vita alla quale Gramsci ed il Partito Comunista hanno sbagliato a non dare importanza, un mondo “altro” sottoproletario e subalterno con il quale Pasolini sente di avere un legame psicologico e ideologico che descrive con commossa partecipazione e intensità: una “collettiva presenza” verso la quale se ne va: Me ne vado, ti lascio nella sera. Consapevole del fatto che come ebbe modo di scrivere “Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose” lascia il cimitero e Gramsci con una domanda, un dubbio: potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?

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Jaime Gil de Biedma, la poesia dell’esperienza
a cura di Giorgio Bolletta

Jaime Gil de Biedma è autore di un’opera poetica breve, ma di qualità molto elevata, che lo pone tra i poeti più influenti della seconda metà del XX secolo. Appartiene al cosiddetto “gruppo poetico del ‘50” ed alla corrente letteraria conosciuta con il nome di “poesia dell’esperienza” - concetto che egli stesso introduce in Spagna nel corso degli anni sessanta. L’insieme  del suo contributo poetico si ritrova in Las personas del verbo (1971) che, anche se è costituita da meno di cento poesie, è, attualmente, una delle opere più lette ed imitate.
La sua produzione lirica, inizialmente caratterizzata da atteggiamenti di denuncia e di forte impegno civile come in  Según sentencia del tiempo    (1953) e Compañeros de viaje (1959), approda con gli anni ad una visione disincantata, ironica e pessimista del mondo: Moralidades (1966) e Poemas póstumos (1968).
Degne di attenzione sono anche A favor de Venus (1966), poesie d'intenso erotismo, ed il Diario de un poeta seriamente enfermo (1974), memorie intime in prosa scritte nel novembre del 1929. Biedma nasce in una famiglia borghese, quinto di sette tra sorelle e fratelli. Dal punto di vista degli affetti, Jaime è dovuto vivere in una società chiusa nella quale manifestare apertamente  la propria omosessualità e scrivere liberamente su di essa non gli è stato per niente facile.
La sua passione per la poesia non lo distacca dalla realtà. Negli anni sessanta tenta di iscriversi al partito Comunista Spagnolo,  ma non viene accettato a causa della su omosessualità. Nel corso della sua vita questa repressione si presenterà molte volte, ma egli non permetterà mai che lo censurino.
Jaime Gil de Biedma muore di Aids, come molti omosessuali del  suo tempo, l’8 febbraio del 1990. Da allora e per sempre viene riconosciuto come uno dei grandi poeti che ha dato la Spagna.

No volveré a ser joven

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender más tarde
-como todos los jóvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella quería
y marcharme entre aplausos
-envejecer, morir, eran tan sólo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el único argumento de la obra.

Jaime Gil de Biedma «Poemas póstumos» (1968)

 Non sarò mai più giovane

Che la vita fosse una cosa seria
uno lo comincia a capire  più avanti
.  come tutti i giovani, mi trovai
a vivere la vita con irruenza.

Lasciare un segno volevo
ed andarmene tra gli applausi
- invecchiare, morire, erano soltanto
le dimensioni del teatro.

Però è passato il tempo
e la verità sgradevole si palesa:
invecchiare, morire,
è l’unico tema dell’opera.

Trad. Giorgio Bolletta

Años triunfales
... y la más hermosa
sonríe al más fiero de los vencedores
.
Rubén Darío
Media España ocupaba España entera
con la vulgaridad, con el desprecio
total de que es capaz, frente al vencido,
un intratable pueblo de cabreros.
Barcelona y Madrid eran algo humillado.
Como una casa sucia, donde la gente es vieja,
la ciudad parecía más oscura
y los Metros olían a miseria.
Con la luz de atardecer, sobresaltada y triste,
se salía a las calles de un invierno
poblado de infelices gabardinas
a la deriva bajo el viento.
Y pasaban figuras mal vestidas
de mujeres, cruzando como sombras,
solitarias mujeres adiestradas
—viudas, hijas o esposas—
en los modos peores de ganar la vida
y suplir a sus hombres. Por la noche,
las más hermosas sonreían
a los más insolentes de los vencedores.


Jaime Gil de Biedma «Moralidades» (1966)

 Anni trionfali

...e la più bella
sorride al più fiero dei vincitori

Rubén Darío

Mezza Spagna occupava la Spagna intera
con la volgarità, con il disprezzo
totale di cui è capace, nei confronti del vinto,
un intrattabile popolo di caprai.

Barcelona e Madrid erano alquanto umiliate.
Come una casa sporca, in cui la gente  è vecchia,
la città sembrava più buia
e le Metro odoravano di miseria.

Alla luce della sera, spaventata e triste,
si usciva per strada di un inverno
popolato da infelici soprabiti
alla deriva sotto il vento.

E passavano figure malvestite
di donne, incrociavano come ombre,
solitarie donne addestrate
- vedove, figlie o spose -

al modo peggiore di guadagnarsi la vita
e sostituire i loro uomini. Di notte,
le più belle sorridevano
ai più insolenti dei vincitori.

Trad. Giorgio Bolletta

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Walter Pilini poeta giocoso e scanzonato
di Giorgio Filippi

La sua poesia si “nutre” del dialetto perugino. I suoi versi scanzonati, irridenti, disincantati, diventano quel profumo di “bigarumi” che Walter sa amalgamare ed esaltare. Parole ricercate e semplici come coloratissimi fiori di campo che regalano la bella stagione. Una autoironia che distende un velo di malinconia e rimpianto e  ricerca un “ozio” tutto latino che come sottolinea Renzo Zuccherini è “attaccamento alle radici, al luogo che dà senso al mondo.

Aguardo la clessidra                   (Guardo la clessidra
la réna s'è amucchiata                la sabbia s'è ammucchiata
l temp é più poco                         il tempo è poco)
                                                  


So stato n cane sciolto                (Sono stato un cane sciolto
cussi,senza padrone,                   così, senza padrone,
col summio mai sepolto               col sogno mai sepolto
de la rivoluzione                          della rivoluzione)


Trent'anne,laureato                        (Trent'anni, laureato,
va n cerca de n lavoro...                 va alla ricerca di un lavoro...
So sempre più ncazzato:                Sono sempre più incazzato
ch' avén fatto per loro?                   che cosa abbiamo fatto per questa generazione?)


Si è vér che i Talebani énno studenti         (Se è vero che i Talebani sono studenti
ta me me sa ch'én tutti ripetenti                   sono dell'avviso che forse siano tutti ripetenti)

Nato  a Perugia nel 1948 Walter Pilini è laureato in Materie Letterarie con una tesi in  Paleografia     latina. Nella scuola di Chiugiana  ha insegnato per più di trenta anni e condotto significative esperienze pedagogiche. Ha collaborato con la Cattedra di Dialettologia italiana dell'Università di Perugia per la Toponomastica. È autore di numerose raccolte poetiche alcune delle quali pubblicate con lo pseudonimo di Quartilio. È lui uno dei fondatori dell'Associazione di Cultura Dialettale e Popolare “Il Bartoccio”. Ricordando le sue innumerevoli pubblicazioni ci piace  segnalare “BIGARUMI” Spigolature estive e divertissements extra-vaganti e “Via...Gra”, fatti e misfatti inverosimili per le vie perugine. È bene segnalare che le poesie scelte in questa occasione sono state pizzicate qua e là da “39,corsobersaglieri” e “Pensieri in/versi” Porzi editore.

È arrivato anche il momento di goderci alcuni degli HAIKU (poesia giapponese composta di 17 sillabe ripartite in gruppi di 5,7,5) che Pilini declina in dialetto:

Callato è l sole                                            (Calato è il sole
dietr'a l'ultimo toppo                                     dietro l'ultima collina
abuja l giorno                                               annotta)


M'assilla l tempo                                          (M'assilla il tempo
me illudo d'afermallo                                    mi illudo di fermarlo
ma vò con lu                                                 ma vado con lui)

Le lale spunte                                            (Le ali spuntate
epur vorrìa golàe                                        eppure vorrei volare
per ducasìa                                                da qualsiasi parte)


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La poeta Antonella Giacon

La poesia di ANTONELLA GIACON in PEGNO D’AMORE (Edizioni Corsare 2001) è CIO’ CHE RESTA (LXXII) di un amore che ha lasciato TRACCIA. È ricognizione di un percorso e di un tempo rappresi, a ricordare per frammenti, quanti sono i frantumi, MILLE GRETTI(XVII) di corpo, ossa, anima. È un pieno di pressioni e di sensualità,  o di attesa, mancanza, VUOTA ASSENZA (XIII).
In PEGNO D’AMORE la scrittura, severa, asciutta, non eccede, non concede, ma taglia netta verso l’essenziale, il nocciolo della verità incarnata: l’amore come CURA(XXVIII) e DISCIPLINA DURA DI DOLCEZZA(LIII), tenerezza e pietà DI BRICIOLA PICCINA (IX), ETERNO MISFATTO(VI) fino alla sentenza: SE L’AMORE È UNA PARTITA SOL VINCERE PUÒ UNO ALLA VOLTA(XI).
La scelta del verso, breve inciso incalzante, in una lingua piena e densa , classica e colta,   dice il piacere,  il singhiozzo, il desiderio, l’abbandono. DOVE SI TESSE IL SUONO PER FARNE PAROLA(LXVII) là è la poeta artista. Servono le parole per ricordare, e per guarire il corpo affannato dall’amore, come gocce distillate o note musicali, per uscire al respiro, all’aria, alla distanza, alla comunicazione. Da qui la poesia come guarigione e percorso di identità NON SO TENERE DRAPPI/NÈ FILARE/SOLO CON LE PAROLE/SO ONORARE. E ancora conoscenza di sé nell’altro, meditazione, consapevolezza, salvezza, CORDA DA AFFERRARE/E GRAZIE RENDO A LEI/PER QUESTO FIORE/CHE NASCE ORA/IN PEGNO D’AMORE (XXXVI).E la narrazione, il racconto ne acquista spessore e senso. La poesia di Antonella Giacon è il graffio sottile della penna, perché la poesia più di altre forme di scrittura va scritta “a mano”, presa e raccolta con una penna o matita, la poesia è contatto, fisicità, corporeità, postura, gestualità. Ho partecipato ai corsi di scrittura creativa tenuti da Antonella e ancora mi porto nel ricordo la suggestione del rituale degli incontri. Antonella usava una bella penna stilografica che a un certo punto tirava fuori dall’astuccio come segnale di inizio. Riporto una sua nota autobiografica: ”Amavo talmente la scrittura che a quattro anni ripassavo con uno stuzzicadenti le scritte dei miei libri di favole illustrati immaginando di averli scritti io stessa.”
Nata a Padova, “in pieno centro storico, a pochi passi dalla basilica del Santo… da grande avrei voluto fare la ballerina, la scrittrice o la maestra”, ha realizzato i suoi obiettivi, anche ballerina di danza popolare e tango! È tra i soci fondatori della Associazione poetica IL MERENDACOLO, formatrice di scrittura creativa e didattica della poesia nelle scuole e in corsi per adulti, ha operato anche nella sezione femminile del carcere di Capanne. Antonella va dietro alle sue curiosità, passioni e visioni, sempre con il bagaglio delle parole, ne fa esperienza e sperimentazione di creatività rinnovata, come alcune collaborazioni e regie di performance e spettacoli di poesia e musica e fotografia, danzaterapia, video. (Attualmente scrive narrativa) E tutto diventa occasione di scrittura, invenzione, ricerca di linguaggi, di nuove forme espressive e spiragli per scoprire e rintracciare luoghi, persone, legami, memorie.  Possiamo leggere allora la leggerezza di SOTTOPRESSIONE (Fara Editore 1994), elegante piccolo libro, dove DANZA LA PAROLA (pag.45), quasi un diario di vita, altrove?,i n cui gli oggetti, le persone, gli amori, i cieli,erbe ed animali, piccoli segni immediati ,aprono la visione di una situazione di semplicità, di “FOTO IN BIANCO E NERO”(pag.36) quasi fossero la felicità.
“I GIROTONDI/ESTIVI CERCHI DI FUOCO” (pag.45), le biciclette nella notte, i silenzi e “LE STELLE FEMMINACCE”, e “ INSIEME CI S’INCONTRA/ANCORA/A PARLARE/…. POI SI GIOCA /A PALLONE/ AL BUIO POCO/SI VEDE,/SOLO LA LUNA/SBIANCA IL VISO .” (pag.17).  Qui Antonella, tra FUGHE chiamate PARTENZE,(pag.38)prende nota per la memoria e la nostalgia future perché “la scrittura a volte mi ha un po’ salvato, perché riuscire a dire quello che c’è dentro o fuori è importante, dà pace, dà forza e coraggio, fa ordine nel caos della mente e del cuore”.
“TANTE VOLTE AVREI POTUTO TORNARE/MA SEMPRE C’ERA UN RITARDO/…TANTE VOLTE AVREI VOLUTO TORNARE../PRIMA CHE IL BUIO/MI RENDESSE/ANCORA PIU’ STRANIERA.”(pag.40) E forse non è un caso che a questo punto del libro Antonella inserisca alcune poesie in lingua veneta, nella lingua delle origini. “È una lingua che necessita di essere pronunciata” dice  in una intervista a Brunella Bruschi (Femminilmente, Edizioni Era Nuova 2008 pag.60) e sentirla leggere è un ascolto con un valore aggiunto di suoni e musicalità dolci e pensosità intima come dondolarsi su filastrocche e ninne nanne e raccogliere un filo lasciato in un altrove materno. ”STA VITA CHE BRUZA/CHE STRIGA CHE SBRISSA/CHE TAIA CHE  VERZE/CHE CORE CHE PERDE/CHE NO SE SCATIIA/STA VITA CHE OFENDE,/CHE STRINZE CHE TIRA/CHE SERA CHE INCIAVA/CHE SPINZE CHE CAVA/CHE SPACA CHE STRASSA/CHE SPUA CHE ROVERSA/CHE STUA CHE IMPISSA/CHE STRUCCA CHE STRISSA/CHE SBREGA CHE LIGA/STA VITA CHE SIGA”.
È una radice d’amore che sta tra le sue eredità  e forse è una trama musicale per le sue poesie altre.
Non tutto è stato pubblicato di Antonella Giacon, ma in rete c’è molta produzione poetica. Per esempio NUDI(2005), incursione forte, carnale, ironica, nel mondo dei maschi con un’altra invenzione di linguaggio nell’interpretare l’amore, il sesso, i legami. Un gioco, uno smascheramento: mettere a nudo gli uomini.  ”QUELLA NOTTE/È SUCCESSO DI TUTTO/COSI’ DICE./LEI PARLAVA/PIANGEVA/MI STRINGEVA LA MANO./PECCATO CHE IO DORMIVO.”
Da “ONORE AL PADRE” (2001,altro testo in rete):”BALLAVA MIO PADRE/IN QUELL’ESTATE/E SENZA FRETTA/TENEVA NELLE MANI/LE MIE MANI”.
E ancora: “UN GIORNO/HAI VOUTO/VESTIRMI TU./Mi HAI INFILATO/ALL’INVERSO LE SCARPE,/LA SINISTRA CON LA DESTRA,/E AI MIEI PIANTI/HAI RISPOSTO:/NON FAR STORIE/CAMMINA/FINO A SERA/MI SONO TORTURATA/IN QUELL’ERRORE/FINO ALL’ABITUDINE./IGNARA IO/IGNARO TU/CHE QUEL GESTO ERA/UN DESTINO.” Il destino(?) che incide segni e legami e memorie, si fa identità e conoscenza ,vissuta e sentita, patita   o goduta, e crea echi di voci e suoni di parole, se si è capaci di porsi in ascolto.

di Rossana Stella

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In occasione della Mostra «Exiliarte» dedicata a Rafael Alberti, in corso a Roma presso Instituto Cervantes a Piazza Navona, fino al 15 gennaio, la rubrica e sia poesia  si occupa del famoso poeta Rafael Alberti

"Me fui con el puño cerrado y vuelvo con la mano abierta como símbolo de paz y fraternidad entre todos los españoles"
Rafael Alberti


La poesia di Rafael Alberti

Bio-Bibliografia
Rafael Alberti Morello (El Puerto de Santa María, Cádiz, 16 dicembre 1902 – ivi, 28 ottobre 1999) è uno dei poeti spagnoli della Generación del 27.
Inizia la scuola superiore nel Collegio dei Gesuiti di Puerto Santa María, ma, nel 1917 si trasferisce a Madrid, dove abbandona gli studi e si dedica alla pittura. Nel 1922 tiene una mostra nell’Ateneo, istituzione privata di Madrid istituita nel 1835 .
Per ragioni di salute si sposta nella Sierra Guadarrama, dove inizia a scrivere la prime poesie raccolte con il titolo Marinero en tierra (1924). Ottiene, con questa opera, il Premio Nacional de Poesía. Seguono La Amante (1925) e El alba de alhelí  (1925 -’26).
Nel 1927 partecipa alle celebrazioni per il terzo centenario della morte di Luis de Góngora (Córdoba, 11 luglio 1561 – ivi, 23 maggio 1627) , in onore del quale pubblicherà Cal y Canto. Nel 1928 compone, in seguito ad una profonda crisi personale, Sobre los ángeles, seguito da Sermones y moradas e El hombre deshabitado. Da allora, dopo essersi iscritto al Parito Comunista Spagnolo insieme alla compagna María Teresa León  (Logroño, 31 ottobre 1903 – Madrid, 13 dicembre 1988),  ed aver fondato la rivista "Octubre", la sua opera assume una connotazione politica. Partecipa alla Guerra Civile, dalla parte della Repubblica. Nel 1939, alla conclusione della Guerra, emigra in Argentina, dove, nel 1945 dà alle stampe A la pintura: poema del color y la línea.
Nel 1962 si trasferisce a Roma. Il rapporto del poeta con Roma è raccontato nel libro di memorie in due volumi L’albereto perduto (Editori riuniti, 2010). Ad Alberti non piaceva, però, la Roma delle rovine romane o quella rinascimentale, era attratto invece da quella popolare, confusionaria di Trastevere, Campo dei fiori e da quella moderna, caotica, dove a causa del traffico è difficile perfino fare una passeggiata - questa difficoltà la descrive nella poesia Roma, peligro para caminantes (1968). Alberti frequenta artisti e poeti, la sinistra dell’epoca, conosce il gruppo musicale cileno degli Inti Illimani che metterà in musica il suo poema Creemos el hombre nuevo - poesia scritta a Roma nel 1973.
Al ritorno in Spagna, nel 1977, viene eletto deputato del Partito Comunista de España, però rinuncia al seggio per portare avanti la sua opera letteraria. I suoi libri di memoria hanno grande successo nelle diverse edizioni, sempre più complete, dei diversi volumi di Arboleda perdida (dal 1920). Tra i numerosi riconoscimenti  ed omaggi che gli vengono dedicati risalta  il Premio Miguel de Cervantes concessogli nel 1983.

Giorgio Bolletta


Lo que dejé por ti

Dejé por ti mis bosques, mi perdida
arboleda, mis perros desvelados,
mis capitales años desterrados
hasta casi el invierno de la vida.

Dejé un temblor, dejé una sacudida,
un resplandor de fuegos no apagados,
dejé mi sombra en los desesperados
ojos sengrantes de la despedido.

Dejé palomas tristes junto a un río,
caballos sobre el sol de las arenas,
dejé de oler la mar, dejé de verte.

Dejé por ti todo lo que era mío.
Dame tú, Roma, a cambio de mis penas,
tanto como dejé para tenerte.

Ciò che ho lasciato per te

Lasciai per te i miei boschi, la tradita
fila d’alberi, i cani vigilanti,
e gli anni dell’esilio più importanti
fino a quasi l’inverno della vita.

Lasciai un sussulto, lasciai un tremolio,
un fulgore di fuochi non smorzati,
e l’ombra mia lasciai nei disperati
occhi che sanguinavano all’addio.

Lasciai colombe tristi accanto al rio,
cavalli sotto il sole delle arene,
senza odore del mar, senza vederti

Lasciai per te tutto ciò che era mio.
Dammi tu, Roma, in cambio delle pene
tutto ciò che ho lasciato per averti.

La niña que se va al mar

¡Qué blanca lleva la falda
 la niña que se va al mar!

¡Ay niña, no te la manche
la tinta del calamar!

¡Qué blancas tus manos, niña,
que te vas sin suspirar!

¡Ay niña, no te las manche
la tinta del calamar!

¡Qué blanco tu corazón
y qué blanco tu mirar!

¡Ay niña, no te los manche
la tinta del calamar!  

La ragazza che se ne va al mare

Che bianca la gonna che indossa
la ragazza che se ne va al mare!

Attenta ragazza che non te la macchi
l’inchiostro dei calamari!

Che bianche sono le tue mani, ragazza,
che te ne vai senza sospirare!

Attenta ragazza che non te le macchi
l’inchiostro dei calamari!

Che bianco il tuo cuore
e che bianco il tuo sguardo!

Attenta ragazza che non te li macchi
l’inchiostro dei calamari!

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Affondate in una cassapanca le poesie di Goliarda Sapienza

“L'arte della gioia” è il romanzo più famoso di Goliarda Sapienza e il più imponente. Modesta la protagonista si ribella alle leggi del patriarcato e delle convenzioni sociali, fa poltiglia di tutti i sensi di colpa e diviene la principessa Mody. “Modesta è la donna che non sono mai riuscita ad essere” confessava Goliarda agli amici. Un romanzo “maledetto”  “l'arte della gioia”: rifiutato dalle case editrici italiane spunta a Berlino. Sarà proprio Waltraud Schwarze a segnalare il romanzo a Viviane Hamy a Parigi. Urgentemente viene messa al lavoro la traduttrice Nathalie Castagnè. Il trionfo del romanzo in Francia finisce per rimbalzare in Italia. Anche grazie all'azione di Angelo Pellegrino viene restituito a Goliarda il riconoscimento dovuto,seppur postumo. Ridendo lei diceva: “Diventerò famosa quando sarò sparita”
Goliarda Sapienza (1924-1996) era nata a Catania ultima figlia di una famiglia socialista. Il padre Giuseppe  Sapienza è un noto avvocato. La madre Maria Giudice  è stata la prima segretaria della Camera del Lavoro a Torino. Goliarda non frequenta le scuole pubbliche. Giovanissima si trasferisce a Roma. Col nome di Ester Caggegi partecipa ad azioni partigiane durante l'occupazione nazista. Di questo non ha mai amato parlare. Studia all'Accademia di Arte Drammatica  E' attrice di teatro e di cinema. Lavora con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti e Citto Maselli col quale vivrà diciotto anni.
Oggi che parliamo delle sue poesie, vale la pena di ricordare che arrivano alla luce,dopo essere state abbandonate in una cassapanca, con cinquanta anni di ritardo. Mario Alicata, all'epoca dirigente del Pci , dirà di questa opera poetica “ Non credevo che la figlia di Maria Giudice potesse scrivere poesie come qualsiasi figlia di famiglia borghese”. Un giudizio che stronca. Lei che si pone il problema  di ribellarsi a questi “eroici genitori”,vede anche fallire la sua esperienza di attrice. La compagnia d'avanguardia “T45” da lei fondata, incontra il divieto del Ministero per  la messa in scena della “Mandragola” di Niccolò Machiavelli.
Il suo primo romanzo è “Lettera aperta” 1967, a seguire arrivano“Il filo di mezzogiorno” 1969, “L'università di Rebibbia" 1983, “Le certezze del dubbio” 1987. A cura di Angelo Pellegrino, pubblicati postumi, “L'arte della gioia" 1998, “Destino coatto” 2002, “Io, Jean Gabin” 2010, “Il vizio di parlare a me stessa” 2011.
Pizzichiamo alcune delle sue poesie da “Ancestrale” (La vita felice edizioni 2013). La pubblicazione è curata da Angelo Pellegrino e Anna Toscano.
Proprio il latinista Pellegrino ci ricorda: “...è come trovarsi ogni volta a salvare carichi che erano già affondati, ma una nave naufragata spesso rilascia pezzi,oggetti, resti di sé su qualche spiaggia desolata, che si fanno ancora più preziosi perché tutto il carico non c'è più”.
Piace anche ricordare che Goliarda considerava il far poesia il più gran lusso che ci si potesse permettere.

di Giorgio Filippi


Non sapevo che il buio
non è nero
che il giorno
non è bianco
che la luce
 acceca
e il fermarsi è correre
ancora
di più


Tu mi volgi le spalle
io non ti chiamo
raccolgo
le tue impronte sul lenzuolo


Io ti dico parole e tu non vuoi
ascoltare e ti chiudi nel cappotto
Non sapevo il dolore d'esser muta
Il dolore di piangere e gridare
senza voce
di battere coi pugni
contro un muro danzante di sorrisi


Ora so tu mi vuoi
generare dal tuo fianco
di uomo. Concimare
del tuo sguardo
di uomo. Ma so anche
questo che maturare
posso solo gridando
sotto il tuo peso


Quando hai chiuso la porta un'altra s'apre
Non esistono chiavi o serrature
Né sbarre, catenacci. Basta voltare
Lo sguardo e spingere
Piano con le mani.


In siciliano, ecco l'appartenenza e l'abbandono, poesia dedicata al padre Giuseppe Sapienza:

Picchì mi chiami
accussì
chi voi di mia
A to carni è fridda
ora.
Prima nun mi vulisti
vasari.

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Federico Garcia Lorca
I sonetti dell’amore oscuro

 

“La poesia non vuole adepti, vuole amanti”: questa frase di Federico Garcia Lorca ha rappresentato il filo conduttore della filosofia creativa di uno dei più importanti poeti del '900. Nato a Fuente Vaqueros nel 1898, fu assassinato a Viznar, dalla milizia franchista, il 19 agosto del 1936. Gli undici sonetti che fanno parte della silloge poetica  “Sonetti dell'amore oscuro”  furono scritti da Federico Garcia Lorca tra tra il  '35 e il '36, quindi a ridosso della tragica scomparsa dell'autore. Questa raccolta di sonetti fu stampata, in edizione completa, solo nel 1984, una cinquantina d'anni dopo la morte di Lorca. Questo forte ritardo forse è dovuto all'assurda volontà di voler tenere nascosta l'impronta omoerotica di questi componimenti, come se l'amore possa avere limiti e barriere a causa degli orientamenti sessuali!  Nel caso di Lorca, più che analizzare la vena poetica dovremmo parlare dell'arteria poetica. Infatti la sua scrittura ha il colore rosso del sangue arterioso accompagnato dalla luminosità ardente delle estati e dal profumo denso dei fiori dell'Andalusia. I suoi versi hanno sempre la musicalità di una milonga, l'intensità di un flamenco gitano e la surrealtà delle notti calde in cui si sogna di sognare. I famosi undici “Sonetos del amor obscuro” nascono, quasi prefigurassero la fine del loro autore, all'insegna della suggestione che non esista altra possibilità di vita che quella del carpe diem. Quindi il portento della passione e l'allegria della stessa, ma anche il tormento, e certo inappagamento, che accompagna l'amore. C'è un' osmosi tra carnalità e spiritualità, tra gioia assoluta e dolore corrosivo.
E' una poesia  terribilmente sentita, questa dei Sonetti, struggente, dove il desiderio d'amore si scontra con le frustrazioni derivanti dai divieti imposti alla propria diversità. “Ti nascondo di lacrime, inseguito/da una voce d'acciaio lancinante” scrive ne “L'amore dorme sul petto del poeta”.
Lorca  sentiva profondamente la sua diversità e si esprimeva con tutta la forza dolente della passione in questi versi di “luminosa” oscurità.
Come ha scritto Ian Gibson, il maggior biografo del poeta andaluso, “A Granada il poeta era considerato omosessuale, disgrazia grave in una città nota per la sua avversione nei confronti della sessualità non convenzionale” ed i Sonetos evidenziano tutta la sofferenza, nonché il desiderio, che frena, e nello stesso tempo spinge, la voglia di donare il proprio amore. Un torto enorme è stato perpetrato nei confronti di questo grande poeta, ma anche nei nostri, facendo attendere per così tanto tempo la divulgazione di questa importante raccolta di sonetti.

Giorgio Croce

Testi originali tratti da: Federico García LorcaSonetos del amor oscuro, Textos.Info. Biblioteca digital abierta.
Testi in italiano tratti da:  Federico García Lorca I sonetti dell’amore oscuro, Tascabili Newton.


El amor duerme en el pecho del poeta

Tú nunca entenderás lo que te quiero
Porque duermes en mí y estás dormido.
Yo te oculto llorando, perseguido
Por una voz de penetrante acero.
Norma que agita igual carne y lucero
Traspasa ya mi pecho dolorido
Y las turbias palabras han mordido
Las alas de tu espíritu severo.

Grupo de gente salta en los jardines
Esperando tu cuerpo y mi agonía
En caballos de luz y verdes crines.
Pero sigue durmiendo, vida mía.
¡Oye mi sangre rota en los violines!
¡Mira qe nos acechan todavía!.


L'amore dorme sul petto del poeta

Non saprai mai cos'è questo mio amore
perché addormentato dormi su di me.
Ti nascondo di lacrime, inseguito
da una voce d'acciaio lancinante.
La norma che scompiglia corpi ed astri
s'è fitta nel mio petto dolorante
e hanno morso le torbide parole
le ali del tuo animo severo.

A gruppi gente salta nei giardini,
attende il corpo tuo e la mia agonia
in cavalli di luce e verdi crini.

Ma continua a dormire, vita mia.
Senti il mio sangue rotto tra i violini?
Attento! Ci spia qualcuno, attento!

Soneto de la guirnalda de las rosas

¡Esa guirnalda! ¡Pronto! ¡Que me muero!
¡Teje deprisa! ¡Cantal ¡Gime! ¡Canta!
Que la sombra me enturbia la garganta
y otra vez viene y mil la luz de enero.

Entre lo que me quieres y te quiero,
aire de estrellas y temblor de planta
espesura de anémonas levanta
con oscuro gemir un año entero.

Goza el fresco paisaje de mi herida,
quiebra juncos y arroyos delicados,
bebe en muslo de miel sangre vertida.

Pronto ¡pronto! Que unidos, enlazados,
boca rota de amor y alma mordida,
el tiempo nos encuentre destrozados.

Sonetto della ghirlanda di rose

Presto con la ghirlanda, su, ché muoio!
Svelto, intrecciala! Canta, gemi, canta!
L'ombra m'intorbida la gola
e mille volte e più splende Gennaio.

Tra l'amore mio per te e tuo per me,
vento di stelle e fremito di pianta,
densità d'anemoni solleva
in un gemito cupo, un anno intero.

Fresco il paesaggio della mia ferita,
godilo! Spezza giunchi e ruscelli
delicati! Da cosce di miele bevi sangue sparso!

Ma presto! Uniti, avvinti,
bocca rotta d'amore, anima a morsi,
il tempo ci ritrova consumati.

Soneto de la dulce queja

Tengo miedo a perder la maravilla
de tus ojos de estatua y el acento
que me pone de noche en la mejilla
la solitaria rosa de tu aliento.

Tengo pena de ser en esta orilla
tronco sin ramas, y lo que más siento
es no tener la flor, pulpa o arcilla,
para el gusano de mi sufrimiento.

Si tú eres el tesoro oculto mío,
si eres mi cruz y mi dolor mojado,
si soy el perro de tu señorío.

No me dejes perder lo que he ganado
y decora las aguas de tu río
con hojas de mi Otoño enajenado. 

Sonetto del dolce lamento

Temo di perdere la meraviglia
dei tuoi occhi di statua e la cadenza
che di notte mi posa sulla guancia
la rosa solitaria del respiro.

Temo di essere lungo questa riva
un tronco spoglio, e quel che più m'accora
è non avere fiore, polpa, argilla
per il verme di questa sofferenza.

Se sei tu il mio tesoro seppellito,
la mia croce e il mio fradicio dolore,
se io sono il cane e tu il padrone mio

non farmi perdere ciò che ho raggiunto
e guarisci le acque del tuo fiume
con foglie dell'Autunno mio impazzito.

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Il Circolo dell'amore

La poesia di Gladys Basagoitia Dazza

di Antonella Giacon

Parlare di Gladys Basagoitia Dazza per me non è così facile perché oltre a conoscerla da molto tempo come poeta (così ama definirsi), mi unisce a lei un profondo legame d’amicizia ormai pluridecennale. Perciò per parlare di lei userò sempre solo il suo bellissimo nome, perché Gladys non ama le convenzioni e rifugge dalle rigide etichette.
Giunta a Perugia da un paese molto lontano, il Perù, Gladys ha trovato qui la sua casa e ha lavorato per molti anni come biologa. Si è sempre sentita fortemente legata alla sua terra d’origine, ma al tempo stesso ha assorbito lentamente e naturalmente la lingua e la cultura italiana giungendo a una sintesi che rappresenta la felice convivenza di queste due anime. Le sue poesie possono nascere in italiano o in spagnolo e molto spesso nei suoi libri troviamo queste due lingue vicine l’una all’altra in un reciproco dialogo e confronto.
Al tempo stesso il suo tirocinio poetico non accademico, vista la provenienza da studi scientifici, l’ha condotta ad elaborare un linguaggio molto personale, lontano da schemi e classificazioni.
I temi ricorrenti, anzi, il tema ricorrente della sua poesia è soltanto uno: l’amore. Amore nelle sue più diverse accezioni e nell’evolversi della sua vicenda umana. Mentre nei suoi primi libri ha largo spazio l’Amore per l’altro da sé, l’Uomo con cui intesse un dialogo al tempo stesso sensuale ed estatico, ma anche libero da esclusività e possesso, nel corso del tempo prendono sempre più spazio altre forme di amore: l’amore per la vita in ogni sua forma, l’amore per se stessi visto come dignità dell’ essere, l’amicizia, la gratitudine, l’amore per la giustizia, la fratellanza, la condivisione, la compassione, l’ adesione ad un principio d’amore cosmico che pervade l’esistenza.
Averla come amica e come poeta in questa città è un privilegio per me e per chi la conosce. Nonostante l’età avanzata e le difficoltà di salute Gladys mantiene una freschezza d’intelletto e una tenera ironia nei confronti della vita che rappresentano un vero insegnamento per chiunque. Nel tempo ha concentrato sempre più l’attenzione su una spiritualità intima e al tempo stesso aperta, liberata da connotazioni religiose canoniche.  La poesia continua a visitarla, come lei ama dire, con assiduità, dandole modo di poter condividere con noi questo dono prezioso.
Riporto qui , a partire dal suo primo libro tradotto in Italia, “Curve angolazioni triangoli” del 1986, qualcuna della sue poesie.

CON AMORE A TE UOMO
Tu hai bisogno di sentirti necessario
unico, meraviglioso,imprescindibile,
ma io solo cerco di farmi necessaria
e non sono unica, né meravigliosa,
né imprescindibile.
E forse tu sei per me necessario
ma ho bisogno soprattutto di me stessa.
E tu potresti in qualche modo per me
essere unico e meraviglioso,
ma non imprescindibile.
Eppure
mi sento bene vicina a te, mi dà pace la tua presenza
ed a volte m’inquieta ed è sempre magnifico,
il mio respiro è più dolce, il mio corpo è più tiepido
ma non è che tu mi completi perché
io sono ormai completa,
vengo a te, ma non a cercare pezzi che mancano,
né la forza che non saprei adoperare:
io possiedo la mia, Non voglio dire
che non saprei
imparare
sempre
qualcosa da te, né ch’io non abbia nulla da donarti,
vengo a mani piene e l’anima
aperta
per ricevere
tutto ciò che tu in qualche modo vorresti darmi.
Vengo senza regole fisse, né patti eterni:
vengo a incontrarti.

PER FARE L’AMORE FARE POESIA CUCINARE
Seguire infedelmente le ricette
ossia originalità fantasia
Generosità nello scegliere la qualità degli ingredienti:
carezze parole oppure alimenti e condimenti
Ingredienti giusti in dosi giuste
Misurare con intelligenza
Mescolare rimescolare con amore teneramente
Indovinare il fuoco necessario: la qualità del fuoco
l’intensità la durata del fuoco
Togliere il superfluo
Non affrettarsi Essere sempre presente
Esaltare i sapori ma non esagerare
Con piacere dare piacere
Che la consapevolezza dell’effimero
non tolga la totalità dell’impegno
            da “Selva invisibile”1997

IL CIRCOLO DELL’AMORE
per più mesi
sono stata a letto
ma io danzavo
senza usare i piedi

innamorata
della luminosità
delle anime
di uomini e donne

il dolore era quotidiano
però io ero
dentro il circolo
dell’amore
       da: “L’eternit dell’amaranto”(2019)

RIVOLI DELL’ANIMA
per la via dell’essenza
mi unisco a Te
radice eterna dell’amore

questi versi senza pretese
così semplici sono rivoli
nati dalla fontana dell’anima
portano via dal cervello
l’insidioso dolore

il mio vecchio corpo
ha l’anima giovane
che sa amare
quale fresco ruscello
con il fuoco del sole
       da: “Splendore di farfalle Selene e altri racconti”(2020)

 

Gladys Basagoitia Dazza è nata a Lima (Perú), è biologa e vive da tempo a Perugia. È stata premiata più volte in Perú, Brasile e Italia in concorsi di Poesia nazionali e internazionali: ha pubblicato anche in Argentina, Messico,
Stati Uniti, Nicaragua, Portogallo. Sue poesie si trovano in: «Fiera Letteraria» (n. 18, 1971), "L’odore dei Limoni" (Guerra Ed., 1994), "Memorie in valigia" (III antologia del concorso Eks&Tra, Fara, 1997), "Parole oltre il confine" (IV antologia del concorso Eks&Tra, Fara,1999), "I poteri delle donne" (Comitato Internazionale 8 Marzo, Perugia, 2000), "Connessioni" (a cura di M.C. Landi, Firenze, 2002) e altrove.
Ha pubblicato: "La zarza ardiendo" (Editorial Thesis, Perú, 1964), "Peces ebrios" (Editorial Istituto Cultural Peruviano-Giapponese, 1969, Premio J.M. Arguedas, Lima), "Otra vez sobre el viento" (Editorial Poemas del camino, Miami - U.S.A., 1967), "L’Infinito amore" (Città di Castello, 1986), "Donna eros" (Quaderni contro l’inverno, Perugia, 1992), "Selva invisibile" (F. Fabbri Ed., Perugia, 1997), "Il sorriso del fiume. Racconti d’infanzia e del Perú" (Comitato Internazionale 8 Marzo, Perugia, 1995), "Polifonia" (Edizioni Tracce, Pescara, 2000), "Mujer eros" (Ediciones Flora Tristán, Lima, 2001), "Aguafuerte" (Ediciones Flora Tristán, Lima, 2003). Con "Rêverie" ha recentemente vinto il premio Nuove Scrittrici di Pescara: la silloge sarà pubblicata nel prossimo anno da Edizione Tracce.
Ha partecipato a "Lo spirito dei luoghi. Latinoamericapoesia" nel 1998.

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La poesia di Sandro Penna: una storia senza nome

Per Sandro Penna gli avvenimenti della vita degni d'essere ricordati sono quelli della sua esistenza amorosa, l'intero arco del suo lavoro è un canzoniere d’amore nel quale interagiscono incantesimi, inquietudini, dolori, solitudini, dolcezze diseguali che dominato da un presente eterno e apparentemente immobile sembra d'una sola poesia più le sue innumerevoli varianti che instancabili ripetono i motivi della sua ispirazione. Il filo conduttore dell’esistenza di Penna è quest'ininterrotta lirica, episodica ed eterna, con due figure centrali: il poeta e il fanciullo da desiderare che ha in sé tutto quello che serve per vivere la vita. lo scorrere del tempo è avvertibile raramente e con difficoltà, nonostante ciò il rapporto che si crea tra Penna e le figure del suo canzoniere è più articolato di quanto faccia pensare la ripetitività dei temi che, per di più, non procedono secondo scansioni lineari. Saranno questi passaggi tra sofferenza trattenuta e gioia esplosiva, attese e improvvise apparizioni, queste schegge di storie personali “senza nome” ripetute in una circoscritta varietà di situazioni ma con una vastissima serie di modulazioni e sfumature che scandiranno l’alternarsi dei giorni e delle notti, delle primavere e delle estati penniane: “...Nude campane che la vostra storia / non raccontate mai con precisione. / In me si fabbricò tutto il meriggio / intorno ad una storia senza nome”.

Una poesia volutamente inattuale, distante dalle correnti e imposizioni letterarie del tempo si offre con facilità al “culto”, ma per approfondire l'opera di Sandro Penna si deve sfuggire alla trappola di creare il mito del poeta solitario e irregolare, perché lo stile di vita che ha perseguito è infido, induce a leggende, deforma la sostanza della sua produzione, non fa arrivare nel profondo delle cose. La sua poesia anche se canta a piena gola l’amore per i ragazzi non va incasellata in quella di genere omosessuale, va considerata l’opera d'un grande poeta, meno semplice di quanto sembra, più importante dei suoi tormenti e delle sue “anomalie”. Una poesia irriducibile a ogni definizione, sfuggente per quanto la si cerchi d'esplorare, che pur priva di riferimenti di tempo e di storia riesce a raccontare in anticipo sul neorealismo l'Italia popolare al tempo di Penna: delle lattaie, dei cinema fumosi, delle sale d'aspetto, dei tram, delle ragazze in biciclette, degli operai con la tuta, dei marinai in divisa.

Sandro Penna ha bisogno d'un approccio libero dal ricatto della sua vita randagia, di persone che lo amino di meno, non si abbandonino alla grazia della povertà e lo approfondiscano di più. Analizzino la complessa semplicità del suo lavoro senza pregiudizi e con il giusto distacco che un compito del genere esige accettando il fatto che il suo percorso non va per tappe successive, ma è un alternarsi di movimenti all’indietro e in avanti con istanti di immobilità. Individuino i suoi debiti letterari e svelino la sua capacità di rielaborare e celare letture fatte tirandone fuori una poesia tutta sua nella quale il piacere “fuori norma” ha potuto manifestarsi senza grandi rinunce nell’ambiente puritano, conformista e repressivo dell’Italia del suo tempo.

Come un fanciullo, Penna osserva da poste appartate e precarie ogni cosa con partecipe disarmante ingenuità. Il suo è un guardare appoggiato ai sensi, lo sguardo che getta sui fanciulli, i luoghi e la natura non vede, ascolta. Una capacità che richiede estese meditazioni e una giusta distanza per poter riaffiorare con versi dalla materia antica e abbacinante non a caso il primo volume di Penna (Poesie) inizia con La vita… è ricordarsi di un risveglio e l'ultimo (Stranezze) termina con Ricordati di me / dio dell’amore. È una poesia evocativa dell’istante che si fa ricordo. Ricordo, lontananza, rimpianto sono tutti elementi della nostalgia e sebbene con la nostalgia sia faticoso vivere il presente aiuta ad alimentare il desiderio.

Un desiderio, quello del poeta perugino, che s'accontenta d'essere mutevole e inafferrabile. Per capirlo bisogna essere un po' come lui, inoltrarsi tra le sue poesie da un punto qualsiasi del suo canzoniere accontentandosi di farsi prendere dalla finezza e orecchiabilità dei versi, dalla trasparenza dei sentimenti e dal dolore mai sbandierato, dai cocenti turbamenti e dall’innocente candore presente perfino nei versi più spericolati. Farlo può sembrare semplice, invece è difficile e affascinante perché Penna pur essendo il protagonista incontrastato dei suoi versi non vi si mostra vi si nasconde facendo di tutto per rimanere un mistero da penetrare. Solo con un lavoro successivo che ficchi il naso nell’apprendistato e nell’officina letteraria di Penna, confronti la sua stagione con il clima letterario del suo tempo si supera l’equivoco della facilità della sua poesia ed emerge con forza la sua personalità artistica. Risulterà a quel punto chiaro che la sua opera, tuttora di una modernità indiscutibile, non è marginale come la sua esistenza isolata e irripetibile, ma centrale nella vicenda letteraria italiana e fa di Sandro Penna un classico del nostro '900.

di Vanni Capoccia

Ero solo e seduto. La mia storia
appoggiavo a una chiesa senza nome.
Qualche figura entrò senza rumore,
senz’ombra sotto il cielo del meriggio.

Nude campane che la vostra storia
non raccontate mai con precisione.
In me si fabbricò tutto il meriggio
intorno ad una storia senza nome.

***

Come è bello seguirti
o giovine che ondeggi
calmo nella città notturna.
Se ti fermi in un angolo, lontano
io resterò, lontano
dalla tua pace, – o ardente
solitudine mia.

***

«Lasciami andare se già spunta l’alba.»
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare.
Fra gli anonimi e muti cubi anch’io
cercavo una dimora? Il mare, il chiaro
mare non mi voltò con la sua luce? Salva
era soltanto la malinconia?
L’alba mi riportò, stanca, una via.

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gí e ní
di Ombretta Ciurnelli

Nessun libro è lo stesso libro per tutti i lettori, soprattutto se è un libro bello, della bellezza multiforme che possono avere i libri, perché ciascuno, leggendolo, privilegia il profilo in cui più si riconosce.
Un libro è bello quando sorprende, emoziona, insegna; quando conduce di soprassalto in mezzo a ricordi che si credevano custoditi in un fondo inaccessibile; quando scardina pregiudizi coltivati come convinzioni.
gí e níla quinta raccolta di Ombretta Ciurnelli, ha prodotto in me tutto questo e perciò lo considero un libro bello. Di più: un libro esemplare, per l’equilibrio raggiunto tra l’eleganza formale e l’intensità del vissuto raccontato, per la cura con cui è perseguita la perfetta specularità tra il testo in dialetto e quello in lingua e per la raffinata semplicità del dire poetico che non umilia il lettore frustrando i suoi tentativi di interpretazione.
Condivido con l’Autrice il luogo di nascita e la conoscenza del ruvido dialetto che vi si parla e che io ho relegato, però, in un angolo come lingua dei pensieri segreti  e repertorio di coloriture  incisive, negandone di fatto la dignità di strumento per la produzione letteraria.
Ombretta Ciurnelli, declinando in ciascuno dei ventiquattro testi della raccolta la ricchezza di significati che un’espressione ricorrente nel nostro dialetto – appunto gí e ní – può avere, mi ha mostrato l’errore: le parole in dialetto che per prime abbiamo imparato, raccogliendole sulle labbra di chi altre non ne possedeva, sono la forma originaria del nostro essere al mondo e tentarne la rimozione sostituendole con quelle mutuate dai libri e da parlanti di altra estrazione sociale rispetto alla nostra è una violenza inflitta all’identità che abbiamo.
Questo insegna – mi insegna – la coltissima studiosa umbra di letteratura dialettale, e lo fa senza pedanteria, anzi, con la dolcezza di chi sa che se una forma dev’essere duttile per rendere pienamente percettibile il suo contenuto, nessuna può esserlo di più di quella da cui la nostra appropriazione della realtà è cominciata.

di Rita Imperatori

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Latte nero. La pedagogia interiore di Patrizia Gioia

«E quanto più il vuoto è un crepaccio d’ombre privato del fondo, tanto più questo stesso vuoto ci punge e feconda».
Sopra Tita, una bambina di otto anni, si addensano nuvole scure finché la morte del padre per tumore diventa una enorme dolorosa goccia di china nera che cade sulla sua vita, sconvolgendola. Quella stessa Tita su una gamba sola – così s’intitola il primo libro – la ritroveremo sempre protagonista, in età adulta, anche nel secondo e ultimo libro-capitolo, Il rovescio di Maria. Tra questi due tempi narrativi c’è un intervallo di almeno trent’anni, rimasto quasi imperscrutabile, al pari degli ‘anni perduti’ di Gesù. Scomodo il misterioso vuoto narrativo evangelico che intercorre tra il Gesù dodicenne e quello trentenne per due ragioni: la prima risiede nel fatto che nei due libri della Gioia si compie, simbolicamente, una trasformazione cristica dell’io di Tita; la seconda ragione sta nel perché quegli ‘anni oscuri’ rappresentano, non nel contenuto ma per il loro essere esistenza inesistente, la sostanziale materia a cui le parole della Gioia intendono restituire senso.
Questi due libri in gran parte ‘autobiografici’ ci mostrano, in effetti, quanto sia vitale stare sempre anche nelle nostre ombre. Tita è sempre tesa a snidare le nostre parti più oscure, col fine di integrarle e tenerle in equilibrio con quelle esposte alla luce del sole. Per Gioia l’inquietante, il perturbante, il mostruoso, il negativo hanno dignità vanno considerate quanto la serenità, la catarsi, la bellezza, la positività. Per amare fino in fondo Maria, madre di Gesù, bisogna compiere un viaggio anche nel suo rovescio, nelle sue più inaccettabili e ripugnanti ombre, altrimenti di lei avremo solo un’immaginetta idealizzata, per nulla veritiera, da tenere nel portafoglio o da pregare incorniciata sul comodino.
Il tempo di vita perduto nel caso della storia di Tita è figlio del non avere mai avuto una madre, pur avendola avuta costantemente al suo fianco.
Vale a dire che l’amore, in questo caso l’amore materno mai ricevuto, che dovrebbe nutrire e sostenere ogni creatura, non solo per Tita è rimasto inespresso, ma anzi, in quanto ‘amor mai’, esige nutrimento e sostegno. Eppure, proprio a causa di questo ‘vuoto d’amore’ accade in Tita, per suo merito, qualcosa di inaspettato, taumaturgico: il dolore si tramuta in amore. Da quel vuoto oscuro nato dalla perdita del padre amorevole e dalla presenza-assente della ‘madre mai’, quella bambina scova in sé una forza prodigiosa che ricolora di bianco il latte materno mai ricevuto. Tita trasforma quell’infanzia rubata, che nemmeno il perdono potrà più restituirle o farle vivere come avrebbe dovuto essere, nella sua resurrezione.
Non troverete mai poesie in cui ci si piange addosso ma anzi, di Tita bambina vi innamorerete, per quanto è simpatica e disarmante, pur nella sua rigorosa educazione. Con la Tita adulta de Il rovescio di Maria, invece, stabilirete un’amicizia sodale, di quelle che durano per sempre.
In entrambi i libri troverete un io poetico in continuo ascolto e ricerca di sé e dell’altro da sé. La moltiplicazioni delle madri e dei padri letterari, dalla Lamarque alla Bachmann, da Hesse a Rilke, per citarne alcuni fra quelli più facilmente rintracciabili, hanno certamente colmato quel vuoto di confronto e dialogo, essenziale, per poter diventare ‘grandi’ non solo d’età. Tuttavia anche i maestri nascondono un ‘rovescio’ da cui la Gioia si preserva. L’autrice sa che per trovare una propria voce non deve restare nel cono di luce dei propri maestri; sa bene che ad un certo punto bisogna camminare nelle proprie zone d’ombra senza più farsi influenzare da nessuno.
Altrimenti non diventeremo mai la nostra voce; le nostre parole non incarneranno mai la nostra poesia.
Trovare la propria poesia significa per Patrizia Gioia trovare la propria liturgia, il proprio ritmo all’interno di un ritmo più vasto e universale; significa accordare il respiro del proprio silenzio con il respiro silenzioso dell’universo “tanto che intendo / quel che tu canti / e s’accende la meraviglia”.
Nei versi di Tita troverete “l’emozione, che quasi ci sgomenta, / di quando una cosa felice cade” (Rilke), perché il perduto resterà, almeno in quella forma, perduto per sempre, e allora capirete quanto è maledettamente importante vivere nel presente; scoprirete “come è difficile il perdono / decreare il male fatto”, sentirete la disperazione struggente che forse quel vuoto d’amore non si riuscirà mai a colmarlo, ma sentirete anche che “la parola / ci è data / per amare”, che si può partorire la propria madre, che anche Cristo può tenere in braccio Maria e che, alla fine, siamo tutti poveri diavoli, comprese le madri che si strozzano con il proprio cordone ombelicale; sentirete che per sanare il male occorre “una pedagogia interiore” e che in questo “continuo inizio / di misteriosa mancanza” in cui siamo perennemente immersi, quando il seno non divora più, il latte cessa di essere nero.

di Dome Bulfaro


NOTA BIBLIOGRAFICA
Patrizia Gioia, designer e poeta, è responsabile del settore culturale e artistico di Fondazione Arbor, che ha avuto come primo presidente Raimon Panikkar.
Co-fondatrice di MilleGru, casa editrice e Associazione di Poetry Therapy, cura la Collana Tita (il bambino è padre dell’uomo) e la Collana “I semi”, che raccoglie pensieri di ricercatori d’oggi.
Pubblica Tita, su una gamba sola, Edizione MilleGru. L’ultimo suo libro è Il rovescio di Maria per i tipi di Moretti e Vitali edizioni. Nel 2000 fonda SpazioStudio13, luogo di incontro.

 
Mi chiamo Tita

da Tita, su una gamba sola

ho nove anni
un mese fa è morto il mio papà
un mese prima anche la mia nonna
tutti e due li ho visti morti
con i miei occhi
forse è per questo che adesso
sento negli occhi qualcosa che non va
è l’estate del 60 non tanto calda
sono sul treno torno da Spotorno
ho una valigetta con i vestiti della colonia
un cappellino di cotone bianco
con scritto Motta in rosso
degli occhiali che fanno anche da cerchietto
hanno le lenti rosa come la vita
di quella canzone che cantava il mio papà
io però non ho voglia di cantare
ma solo di guardare fuori dal finestrino
tutte le altre cantano una canzone che non mi va
abbasso la colonia viva la libertà
un papà e una mamma che alla stazione aspettano
chissà invece dov’è adesso il mio papà
anche gli alberi fuori mi sembrano tanto soli
e il sole che li accarezza un po’
è come il mare che mi ha fatto compagnia
col suo rumore sotto la finestra
mentre la mia compagna
quella del letto a destra
mi rubava lo zucchero dentro il comodino
meno male che il libro delle mie preghiere
l’ho messo ogni notte sotto il cuscino
una sera di qualche giorno fa
tutti dicevano che alle nove in punto
ci sarebbe stata la fine del mondo
era scritto in grande anche sui giornali
tutti ridevano e chiacchieravano
come se fosse una sera uguale alle altre sere
io mangiavo la minestra e stavo zitta
poi alla fine ho preso la mia sedia
e mi sono seduta davanti alla finestra
pareva che il mare fosse dentro la mia pancia
tutto si muoveva il cuore i miei pensieri
e anche la minestra
e pensavo che se finiva il mondo finivo anch’ io
e forse anche il male che sentivo
poi quella cattiva
quella che mi aveva preso lo zucchero dentro al
comodino
mi prende anche il posto davanti alla finestra
e dice che si doveva rompere il grembiule
e buttarlo in alto per fare grande festa
rompere il grembiule?
perché rompere una cosa che mi ha tenuta stretta
una cosa che mi ricorda la bellezza
non spacco proprio niente
le ho detto tirando su gli occhiali
e vedo che sono le nove e dieci
e che la fine del mondo
come il dolore erano andati via
e c’ era qualcosa dentro di me
che era diverso
non è facile dirlo ma come una fiducia
come una specie di profondità
dove il dolore va e smette di far male
forse pensa ancora la mia testa
mentre s’appoggia piano al finestrino
forse le persone dicono le cose
ma non le dicono come sono dentro al cuore
io la fine del mondo invece l’ho provata


Labirinto

da Il rovescio di Maria

quella voce
gli angeli in tempesta
e tra i mortali
stupefatti
una luce dimessa
tocco il vento
l’anima che vola
tocco il tuo seno
che più non divora
non ignoro il nome
ora lo sento lo ascolto
era la stella
che proteggeva la navigazione
le pagine del mondo
non sono più straniere
oltre l’anello di congiunzione
s’apre il mistero
una circonferenza
che non precipita
un centro un antico telo
tessuto di lino
che stringe madre e bambino
nuova la mangiatoia
di noi tutti animali da cortile
di noi tutti apportatori di gloria
senza armi senza confini
la condotta celeste
di un esercito
che invitava alla venerazione
un pennello che dipingeva
la mela rossa il serpente
il nuovo verbo che disfaceva
quante tribù quanti popoli
quante armi e miseria
per raccontare una storia
che è sempre qui
capovolta
e ci attende
dottori senza legge
uomini nuovi
archeologia del rovescio
che custodisce il segreto
di una mano che s’alza
muta
incantata
a dire non so
a dire come farò
a dire saprò amare
come amata
questa è l’ora di accogliere
l’attesa è finita
un contatto diretto di preghiera
è la vita
continuo inizio
di misteriosa mancanza
nulla è ancora accaduto
si nasce nell’incontro
punti dal vuoto

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La lingua fraterna della poesia: un ricordo di Franco Loi

“Un vento / d’urto – un’aria / quasi silicea agghiaccia / ora la stanza …”: ritornano alla mente i versi di Caproni alla notizia, in questo inverno freddo e desolato, della morte di Franco Loi, nella sua Milano, proprio agli inizi di questo nuovo drammatico anno. E si affollano in testa i pensieri, i versi letti e riletti, i ricordi: come quello di un suo lungo, caldo, fraterno abbraccio di tanto tempo fa, per il quale non potrò ora mai più dirgli grazie.

Franco Loi, l’ultimo dei nostri grandi poeti del secolo scorso, almeno stando alla sua collocazione nell’imprescindibile Meridiano Mondadori di Mengaldo Poeti italiani del Novecento, che gli dedica (a lui, un poeta dialettale) proprio l’ultimo capitolo: punto conclusivo, e dunque rilevantissimo, di una vicenda poetica secolare. Ma, come si sa, l’Antologia di Mengaldo è del 1978, e quindi c’era ancora spazio per altre grandi voci, che infatti sarebbero venute: anche nella poesia dialettale, o per meglio dire neodialettale, di cui Loi è stato certamente maestro e punto di riferimento fondamentale, e la cui affermazione come qualcosa di sicuramente grande e nuovo risale proprio agli anni settanta, gli stessi che vedono la pubblicazione dei primi libri di Loi.

E’ a partire da lì che si comincia a scoprire, assai più e più consapevolmente che nel passato, una poesia dialettale esposta alla sperimentazione e alla reinvenzione soggettiva, in modi sempre più liberi e distanti da un dialetto inteso come residuo di una lingua d’uso. E’ il momento che Ferdinando Bandini riassumerà in una sua formula felicissima come passaggio dalla “lingua della realtà” alla “lingua della poesia”. Non che tutto questo avvenga all’improvviso e del tutto inatteso: anche nella nostra tradizione dialettale ci sono prodromi straordinari di questa tendenza (si pensi solo a grandissimi come Giotti, Tessa, Marin, Noventa, e poi Pasolini, Zanzotto …), e un grande merito dei neodialettali è stato anche quello di farci riaccostare a questa tradizione sotto una luce nuova, e con rinnovato entusiasmo. (Per un approfondimento chiarificatore del tema consiglio la lettura dell’Introduzione a Dialetto lingua della poesia, ed. Cofine, di Ombretta Ciurnelli).

E Loi, di padre sardo e madre emiliana, nato a Genova dove ha vissuto i suoi primi anni, si approprierà del dialetto milanese come sua “lingua della poesia” da immigrato. E potrà dire: “mi sono sempre sentito libero nell’uso e nell’invenzione linguistica”. Il milanese, questo milanese con varianti e contaminazioni impreviste, non è dunque la sua lingua madre, è piuttosto la lingua dei fratelli, dei fratelli proletari incontrati (e amati) nelle periferie di Milano. Sempre nel segno di un senso tragico (ma capace anche di allegria) della storia, dai partigiani massacrati a Piazzale Loreto (“in due par morta la cità”) alla dura militanza nei cosiddetti anni di piombo, e oltre …

Ci mancherà, Franco Loi, ma (come diciamo sempre) per fortuna abbiamo i suoi libri, per sentirlo ancora e ancora, così fraterno come pochi. Come fraterna è stata la lingua limpidissima e la poesia di Franco Scataglini, l’altro grande poeta dialettale che, come Loi, abbiamo potuto incontrare e ascoltare anche qui a Perugia, in anni lontani, grazie al meritorio lavoro di divulgazione della poesia fatto da Ilde Arcelli e dal suo Merendacolo. Di Scataglini, poeta in un dialetto anconetano “ntra campi e cità” , aristocratico e popolare, abbiamo una spiegazione semplice e definitiva della sua scelta linguistica, come opposizione e liberazione rispetto a una lingua letteraria codificata dalla convenzione (dal Bembo in poi), che aveva definito “frigida”: cioè, se ho ben compreso, non solo e non tanto fredda, esornativa, lontana eccetera, ma propriamente incapace di corrispondere a un gesto d’amore. Un gesto d’amore, come è la poesia.

Walter Cremonte         
da Micropolis, gennaio 2021

piassa Luret, serva del Titanus 

 ...piassa Luret, serva del Titanus
ti', verta,
me na man da la Pell morta
i gent che passa par j a vör tuccà,
e là, a la steccada che se sterla,
sota la colla di manifest strasciâ,
l'è là che riden, là, che la gent surda
la streng i gamb, e la vurìss sigà.
Genta punciva che la se smangia 'doss,
che la ravìscia ai pè, cume quj trémul
che, 'rent al giüss, se sviccen vers el ciar
e sott la rùsca passa la furmiga
che l'è terrur e rabbia e sbalurdur.
E lì, bej 'nsavunâ, dal pel rasà,
senta süj cass de legn, o, 'm'i ganassa,
ranfiâ, ch'i sten par téndcr caressà,

o che, tra n' rid e un dìss üsmen  cress j ödi
de la camisa nera i carimà,
vün füma, n òlter pissa, un ters saracca,
e 'n crìbben, cui sò fà de pien de merda,
man rosa ai fianch el cerca j öcc nia...

Oh genti milanes,
vü, gent martana,
tra 'n mezza nün 'na gianna la dà 'n piang,
e l'è 'na féver che trema per la piassa
c la smagriss i facc che morden bass.
   Ehi, tu...!... si tu!... che vuoi?
   Manca qualcosa?
     Mì...?
   Si, tu.
e 'na magatel cul mitra sguang
el ranfa per un brasc quèla che piang.
Mi, sciur...?
Tira su la testa !
e lentarnent,
'm rìd una püciànna, i òcc gaggin
sbiàven int j òcc ch'amur je fa murì,
pö, carmu, 'na saracca sliffa secca
tra i pé de pulver, e sfrisa 'me 'na lama
l'uggiada storta tra quj òmn scalfa, [....]

piazza Loreto, dominata dal Titanus

 ...piazza Loreto, dominata dal Titanus
tu, aperta,
come una mano dalla pelle morta
sembri voler toccare la gente che passa,
e là, presso la staccionata sconnessa 
sotto la colla dei manifesti stracciati,
è là che ridono, là, che la gente sorda
stringe le gambe e vorrebbe gridare.
Gente che pensa in silenzio che si smangia dentro,
che mette le radici ai piedi, come quei tremolii
che, presso al letame, si diramano verso la luce
e sotto la corteccia passa la formica
che è il terrore e la rabbia e lo sbalordimento.
E li, ben lavati, con la barba rasata,
seduti sulle casse di legno, o, come i più impudenti,
attaccati alla staccionata, che sembrano accarezzare
   teneramente gli sten,
o che tra il ridere e il parlare, annusano crescere gli odi
gli occhi lividi delle camicie nere
uno fuma, un altro piscia, un terzo sputa,
e un delinquente, col suo modo di fare pieno di merda
con le mani rosate sui fianchi cerca gli occhi che
   gli si negano...
O gente milanese,
voi, gente laboriosa,
in mezzo a noi una povera donna scoppia a piangere,
ed è una febbre che trema per la piazza
e fa smagrire le facce che stringono i denti a testa bassa.
   Ehi tu...!...si tu!... che vuoi?
   Manca qualcosa?
     Io...?
   Si, tu,
e un teppista col mitra puttana
afferra per un braccio quella che piange.
Io signore...?.
Tira su la testa!
e lentamente,
come ride una baldracca, gli occhi bianchicci
sbavano negli occhi che l'amore fa morire
poi, calmo, tira secco uno sputo
tra i piedi nella polvere, e graffia come una lama
l'occhiata storta tra quegli uomini scorticati, [....]


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Alphaville di Mauro Macario

Alphaville, l’ultima raccolta poetica di Mauro Macario, ha un titolo premonitore: annuncia al lettore che lo attende un mondo distopico – a somiglianza di quello raccontato da J. L. Godard nell’omonimo film del 1965 –  incombente e minaccioso ma forse non ineluttabile, a patto che non si consenta alla “notte dei cristalli liquidi” di devastare definitivamente il mondo come un’ altra notte fece, quando cristalli diversi furono infranti.
Per ogni lettore, il fascino della scrittura poetica è rappresentato dall’elasticità del codice comunicativo che la caratterizza e che consente l’appropriazione di contenuti magari diversi rispetto a quelli intenzionalmente offerti dall’autore ma comunque compatibili con quanto della sua poetica si conosce.
Muniti del salvacondotto di questa premessa, si può affrontare quasi ogni tipo di raccolta e utilizzare un tema, una suggestione che si siano accampati nell’attenzione del lettore come chiave interpretativa, sperando di non superare il livello accettabile della distorsione dell’intenzione comunicativa di chi scrive.
Quando i testi sono di Mauro Macario, il rischio di scivolare nel fraintendimento miracolosamente si riduce, perché la sua è poesia logica e penetrabile anche quando giocata sulle allusioni o evocativa del suo non comune spessore culturale.
Anche nei casi in cui il dettato poetico genera iperboli, i contesti reali di riferimento sono facilmente ricostruibili, perché hanno lo stigma della vita e dei suoi dolori, attraversati o soltanto contemplati da lontano, ma sempre, comunque, compresi e meditati.
Così intensa e coinvolgente risulta questa raccolta, che il rischio in agguato è invece quello di esprimere il proprio apprezzamento con un repertorio logorato soprattutto dall’uso/abuso che tutti ne facciamo sui social. Nemmeno una volta, pertanto, scriverò che è “bellissima”.
Cercherò, piuttosto, di rendere conto dell’attrazione che questo libro davvero prezioso esercita con la sua duplice natura: da un lato è fustigatore del mondo contemporaneo e di chi, con una poesia “genuflessa”, cerca di raccontarlo edulcorandone la rappresentazione; dall’altro, dona la delicata, struggente coinvolgente confessione di un modo di essere e di agire.
Si incontrano, così, l’emozionante carnalità del sesso, esplicito e delicato insieme, anche quando il registro è quello del sarcasmo; la fine della comunicazione autentica a vantaggio di una sclerotizzata; il pericolo dell’approdo all’«essere unico», esito spaventoso di un “regresso antropologico irreversibile” a cui conduce “l’amnesia, arma di distruzione di massa” capace di polverizzare la Storia di una Nazione.
E ancora attanaglia la gola la denuncia della pena di morte, condannata senza uno scontato moralismo ma fustigata con il cinismo che solo un soggiorno in Alphaville, destinata a sorgere “sulle rovine neurologiche di massa”, potrebbe inoculare in un osservatore.
E poi la fine degli orizzonti di senso (“filosofie/ religioni/opere d’arte”) infilzati “allo spiedo” dal “cosmico barbecue”, e di ogni scambio verbale che vada oltre la comunicazione del “codice commerciale” ad una cassiera.
Se si volesse ricondurre ad unità la molteplicità dei temi, si potrebbe individuare come centro irradiatore della ricerca di Mauro Macario sul presente la denuncia dell’impossibilità del fare poesia – “un’invenzione di gente senza palle” – o, forse, di ottenerne l’ascolto, di renderla capace di produrre effetti.
Solo che, se così fosse, Mauro Macario avrebbe realizzato il paradosso di una raccolta densissima di temi di attualità trattati, però, con tale sapienza da sottrarli al contingente della cronaca per consegnarli all’eternità della Poesia.

Mauro Macario, Alphaville. Prefazione di Paolo Gera, Puntoacapo Editrice, 2020
 
Rita Imperatori

(dalla rivista l'altrapagina, febbraio 2021)

Alphaville

Con le sue ventose prensili è uscita dal display
si è introdotta nelle cavità cerebrali
ha fatto il nido nella fossa ipofisaria
ha preso vita ad ogni digitazione
si è attorcigliata ad ogni allegato
ha risucchiato il tempo dedicato alle foglie
ha reciso il vento dall’aquilone
ha sfidato il Tao all’ultimo sangue
ha diviso i padri dai figli
in un vangelo senza dottrina
ha realizzato l’uguaglianza sociale
con stampi genetici di gravidanza televisiva
ha reso la fantascienza un’opera di realismo sociale
e il realismo sociale un’opera di fantascienza
ora i libri dell’umanesimo sconfitto
giacciono sulla piazza pubblica del Web
pronti per la notte dei cristalli liquidi
basta impostare il soft-war
là dove si demolisce con gioia sintetica
in un tripudio di sterminio informatico
basta cliccare cestino
e sarà peggio di Hiroshima
i passatisti avversati dalla casta distopica
salteranno in aria con uno strike virtuale
che li annullerà dalla memoria storica o preistorica
ma la procedura impone un salva con nome
perché una firma ci vuole
sulle rovine neurologiche di massa
sulle quali sorgerà la città di Alphaville


Il Circo dei morti con il suo triste imbonitore
l’amore senza corde vocali in un corpo senza sussulti
l’encefalogramma inerte che sventola come una bandiera
l’ovaia unica per la moltiplicazione del consenso
il prodotto biologico vietato perché troppo simile
al sentimento
il sentimento pandemia antropologica morte sicura
la cultura avversata perché sviluppa le facoltà critiche
la setta degli ecologisti nel mirino dell’antiterrorismo
la luna oscurata per non sciogliere trecce ai  balconi
gli angeli sostituiti dagli ologrammi in cima ai grattacieli
e su tutta la nazione una nuvola letargica per la pace sociale.


P.S.
Il marchio Alphaville è disponibile per tutte le altre
metropoli con problemi di cieca obbedienza e insuf-
ficiente livello di produzione.

(Sarzana, 6-12-2019)


Mauro Macario (Santa Margherita Ligure 1947) ha pubblicato i volumi di poesia: Le ali della jena (Lubrina, Bergamo 1990); Crimini naturali (Book, Ro Ferrarese 1992); Cantico della resa mortale (ivi 1994); Il destino di essere altrove (Campanotto, Pasian di Prato 2003); Silenzio a occidente (Liberodiscrivere, Genova 2007); La screanza (ivi 2012 Premio E. Montale Fuori di Casa  2012); Metà di niente (puntoacapo Editrice, Pasturana 2014, Premio Lerici Pea 2015, II posto ai Premi S. Domenichino 2015 e Alda Merini 2016). Del 2017 è l’antologia Le trame del disincanto. Tutte le poesie 1990-2017 (puntoacapo).
In traduzione francese ha pubblicato La Débâcle des bonnes intentions (La rumeur libre, Varelis 2016).
Ha scritto la biografia del padre, Macario un comico caduto dalla luna (Baldini&Castoldi, Miano 1998) e Macario mio padre (Campanotto, Pasian di Prato 2007). Del 2004 è il romanzo Ballerina di fila (Aliberti, Reggio Emilia).
È curatore di varie antologie e figura in numerosi lavori collettanei (tra cui L’invenzione del mare, puntoacapo 2015).

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Gli amici poeti di Walter Cremonte

Dopo cosa resta (Aguaplano, Perugia 2018), in cui sono raccolte liriche tratte da sillogi composte tra il 2001 e il 2016, Walter Cremonte torna a farci dono del suo canto con la raccolta dieci poesie per gli amici (Morlacchi, Perugia), un breve e intenso percorso di scrittura, in uno stile piano e colloquiale, in cui ancora una volta, secondo una sua peculiare cifra stilistica, tessuta in una leggera trama di rimandi, inserisce la poesia di “amici-poeti”, cosicché fare poesia diviene una sorta di vibrazione corale, al di là del tempo e delle contingenze, chiamando accanto a sé chi ha già cantato drammi, emozioni, sentimenti, chi ha già detto dei sentieri tortuosi del nostro esistere. Ma se in altre liriche di precedenti raccolte la citazione trovava un suo fondamento nel nitore rappresentativo di versi o espressioni, in dieci poesie per gli amici Cremonte sembra rimodulare i versi di poeti, come nella prima lirica (Cuore di luna) che rimanda al Canto notturno di un pastore errante di Leopardi, complice la mediazione dell’amico e poeta Paolo Ottaviani che in un bellissimo haiku, posto in esergo, ha capovolto la prospettiva leopardiana. E così anche il pastore-poeta Cremonte non pone domande, ma ascolta la luna, che si rammarica di non poter acquietare la sua ansia e lo invita a contemplarla e a perdersi in lei nelle sere in cui è più bella.
Anche  la lirica A un’anguilla è scritta nel ricordo di due poeti, Eugenio Montale e Fabio Pusterla, ma non per confermarne l’istinto vitale  o per riprendere problemi di carattere ambientale, quanto per cogliere l’attaccamento commovente alla vita dell’anguilla, quello che l’ha fatta attorcigliare quando è finita, senza che ne cogliesse il senso. L’anguilla di Cremonte non è sorella, come in Montale e Pusterla, ma sorellina, ponendo con estrema umiltà la propria poesia accanto a quella di altri, in una sottile riflessione metapoetica che è anche nella lirica La nuova umanità in cui la citazione da Fortini è trascritta solo in parte, con puntini di sospensione (e la poesia non muta nulla…), mentre Fortini concludeva con queste parole: Nulla è sicuro, ma scrivi. E sento che questo pensiero è in fondo sotteso non solo alla breve silloge dieci poesie per gli amici, ma a tutta la poesia di Cremonte che oscilla tra la percezione dei limiti del canto e la certezza della sua insopprimibile necessità.

Ombretta Ciurnelli

Breve nota biobliografica

Walter Cremonte, nato a Novi Ligure, vive a Perugia, dove è stato insegnante di Materie Letterarie nei Licei. A partire dagli anni Settanta ha pubblicato numerose sillogi poetiche, i cui testi sono in parte confluiti nella raccolte Contro la dispersione (Guerra Edizioni, Perugia 1999) e cosa resta (Aguaplano, Perugia 2018). Impegnato in un’intensa e pregevole attività critica e saggistica, ha pubblicato A margine (Crace, Perugia 2005), che contiene riflessioni sulla poesia apparse in “micropolis”, il supplemento umbro del quotidiano “il manifesto”, Poeti a Perugia (Morlacchi, Perugia 2013), con note sulla poesia di Aldo Capitini, Sandro Penna, Ilde Arcelli, Paolo Ottaviani, Michelangelo Pascale. È inoltre presente nel volume Poetica e poesia nella Ginestra di Giacomo Leopardi, a cura di L. e M. Binni (Morlacci, 2012), con un testo intitolato Il Leopardi di Binni, Il Binni di Leopardi.
Nel 2020 è uscita la sua ultima raccolta poetica, dieci poesie per gli amici (Morlacchi, Perugia).

3 testi


Cuore di luna

                        Sorgi la sera
                        e di un vago pastore
                        poi t’innamori?

                       (Paolo Ottaviani)

Sei così caro
al mio cuore di luna
e ti somiglio:
semplice sono anch’io
che sono un sasso
pur così bella.
Mi fai domande
e io non so rispondere:
vorrei tanto sapere
non per me, ma per te
che non t’acquieti.
Ma guardami le sere
che sono bella
e in questo perditi.


A un’anguilla

Anguilla nel piatto
del ristorante al Trasimeno
non sei più la sorella
di Montale e Pusterla
non sei più quella
che va dal Baltico
ai nostri fossi
a portare, forse, un senso alla vita

e non sei quella ancora più sorella,
nel Reno a imputridire imputridita
del nostro putridume globale

tu niente di tutto questo, soltanto
l’attaccamento commovente alla vita
che t’ha fatta attorcigliare
quand’è finita
e non hai chiesto il senso
forse è mancato il tempo
non hai capito perché

(un po’ come me
e m’è rimasta in bocca una spina,
sorellina).

La nuova umanità

Sotto il filo
spinato strisciare
mordere l’aria mordere i sassi
questa la nuova
umanità

noi li dovremo
incontrare, ascoltare
insieme faremo
di nuovo libertà

(ma tanta è la stanchezza
non so se ci vedremo, se
ci riconosceremo

e la poesia non muta nulla…)

(dalla rivista l'altrapagina, gennaio 2021)


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